Cultura e Spettacoli

"Depressione? La sconfiggo restando sempre sul palco"

Il rocker a Londra parla dell'autobiografia: «Suono fino a sfinirmi per non lasciare spazio alla tristezza»

"Depressione? La sconfiggo restando sempre sul palco"

dal nostro inviato a Londra

Poi si infila un paio di occhialini da ragioniere e inizia a raccontare la sua vita: «Anche le lenti sono un punto decisivo della mia autobiografia» scherza amaro. Bruce Springsteen era entrato in una saletta da teatro dell'Institute of Contemporary Arts, a due passi da Buckingham Palace, come se salisse sul palco, giubbotto nero, pantaloni neri, scarpe nere (con una americanissima punta all'insù), tutto nero come la depressione di cui ha subito parlato e che è uno dei binari sui quali corre la sua autobiografia Born to run (edita da Mondadori, top ten in classifica in Italia e in mezzo mondo). Ha una «fede» insolitamente lucidissima al dito e parla con una proprietà di linguaggio da professore di Yale. Ride, legge qualcosina, scherza con i giornalisti europei, non accenna mai neppure un po' al disco appena uscito per Sony Chapter and verse e riassume con una battuta la fatica di scrivere una autobiografia quando si è una delle rockstar più famose di tutti i tempi: «Per presentarlo avrò già firmato settantamila copie, un vero lavoro», e giù una risata. Però, parlando della propria vita, Springsteen racconta indirettamente anche le proprie canzoni, e come e perché sono nate, e lo fa con una voce ambrata dal tempo e con un accento che lo trasformerebbe istantaneamente nel più fascinoso degli speaker radiofonici, qualcosa a metà tra il suo amico De Niro e Orson Welles. «Ho scritto queste pagine in sette anni ma mi sono tremendamente divertito», spiega con l'aria di chi però l'ha capito solo dopo perché prima era troppo concentrato sul risultato. Diventare scrittori da leggere, si sa, è uno dei salti più complicati per chi ha sempre scritto per cantare.

Scusi, mr Springsteen, ma chi glielo ha fatto fare?

«L'idea mi è venuta sette anni fa dopo aver cantato al Superbowl. Oltre alle canzoni, volevo lasciare qualcosa di concreto ai miei figli. E poi ora mia mamma è più felice perché un conto è avere un figlio cantante, un altro è averlo scrittore: è molto più autorevole». (Ride ma non troppo - ndr).

I cantanti si meritano il premio Nobel oppure è d'accordo con chi dice che Bob Dylan non avrebbe dovuto riceverlo?

«Essendo io un tipo che scrive canzoni, non sono d'accordo. Una delle sue prime canzoni che ho ascoltato per radio nel 1965 è stata Like a rolling stone e ci siamo incontrati la prima volta ai inizio anni 70 nei camerini del suo Rolling thunder revue tour. Persona splendida, il suo lavoro è memorabile, resterà nel tempo e ha influenzato una montagna di artisti».

Quindi anche lei potrebbe vincere un Nobel?

«No, io sono già a posto così (sorride - ndr)».

Questo libro lo ha scritto per pagare il debito con suo padre? La figura paterna è sempre stata centrale nei suoi testi.

«T Bone Burnett (decisivo musicista e produttore americano - ndr) dice sempre che la storia del rock si basa soprattutto sulle lamentele e le richieste dei figli verso i padri. Hey daddy... Io ho sempre detto che ciò che non prendi dal papà, lo cerchi di emulare. Ma questo libro non salda nessuno debito».

Quando viveva in famiglia racconta di una vita di birre, blues e dopobarba.

«E in realtà non volevo neanche essere Mick Jagger nei Rolling Stones come tutti i miei coetanei quindicenni. Andavo a seguire le band locali e mi concentravo sui chitarristi ritmici, non volevo mica essere un solista...»

Poi nei locali ha iniziato a suonare con le sue band.

«Suonavamo anche cinque ore, più di quanto facciamo adesso...»

Adesso sono «solo» quattro. Ma lei ha 67 anni, mica quindici.

«Se a freddo uno pensa che suonerà quattro ore, gli viene da dirsi "ma quante cazzo sono"... Poi però viene naturale. Hai davanti 50/60 mila persone che vogliono constatare che sei vivo. Ed è giusto rispettarle».

In quale modo il rock è una protezione dalla depressione di cui parla spesso in Born to run?

«Per molto tempo ho pensato che facessi concerti così lunghi proprio per finire esausto. Quando sei esausto, non puoi essere depresso perché la depressione, in fondo, ha bisogno di energia. Dopo un concerto lunghissimo, non inizi a farti ossessivamente tutte quelle irragionevoli e improduttive domande da cui nasce questa malattia».

Quindi non pensa neanche lontanamente a smetterla con il rock?

«Oggi mi sento meglio di quando avevo quarant'anni e quindi non c'è ragione per smettere».

Sarebbe una resa.

«Vengo da una famiglia di grandi valori. Dai sei ai quattordici anni sono andato a scuola dalle suore e lì mi hanno fatto entrare nel favoloso mondo della Bibbia, che mi ha sempre influenzato tanto. Le mie canzoni in fondo parlano di salvezza, redenzione e riscatto. I versi sono blues, ma i miei ritornelli sono quasi sempre gospel, che è la musica di Dio».

Springsteen scrittore legge altri scrittori?

«Ho appena finito di leggere Moby Dick, che è meno pesante di quanto si pensi, anche se alla fine sulle balene conosci più di quanto possa interessarti... Mi piacciono Philip Roth, Jim Thompson, i racconti di John Cheever e un paio di anni fa mi sono immerso nei grandi russi come Dostoevskij e i suoi Fratelli Karamazov. Comunque mi piace sempre molto la narrativa a sfondo psicologico».

Nessuno scrittore italiano. Eppure le sue origini (da parte di madre) sono italiane.

«E il mio rapporto con le mie radici italiane è favoloso».

Però non è mai tornato nel paese da dove sono partiti i suoi avi.

«Vorrei sempre andare a Vico Equense dove c'è ancora la loro casa e ci sono i miei lontani parenti. Non ho mai tempo. Non ce l'ho fatta neanche quando sono venuto a suonare a Napoli, accidenti...

».

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