da Venezia
Gli imperi familiari portano dentro di sé, per una legge quasi naturale, il germe e/o il genio del fallimento. Di solito non oltrepassano le tre generazioni e quella di mezzo, che già non ha più il vigore del suo capostipite, e non ancora la debolezza congenita di chi poi imboccherà la strada della dissoluzione, sconta proprio l'impossibilità di poter ancora contare sull'esempio che tanto le servì di sprone, e la consapevolezza che già lui, di quell'esempio, non è che il pallido riflesso.
Tutto questo dom Joao, che come un monarca contadino regna su una proprietà di migliaia di ettari nel Portogallo profondo, più o meno inconsapevolmente lo avverte, così come si rende conto che le difficoltà a cui si trova a fare fronte derivano anche dalla difficile situazione che il suo Paese attraversa. In fondo, al tempo in cui suo padre mise insieme la herdade, la tenuta di famiglia, c'era una nazione rimasta estranea agli orrori e ai disastri della Seconda guerra mondiale, governata da un leader, Salazar, che aveva messo ordine nell'economia, messo termine al caos politico e instradato il Paese nel solco di una dittatura che si illudeva di essere illuminata. Poi, dopo la sua morte, tutto ha cominciato a collassare, e le stesse colonie africane, un tempo vanto del regime, si sono sempre più rivelate un costo e una vergogna, mentre la repressione è divenuta l'unico modo per esercitare e mantenere il potere.
A herdade (La tenuta) è il bel film di Tiago Guedes, ieri in concorso, ma, come spiega lo stesso regista, «si tratta di una parola di origine latina, vuol dire anche eredità e nel caso in questione indica un regno fisico, dominato da un uomo carismatico e a suo modo progressista, e un luogo metaforico, perché incarna una storia privata e una storia nazionale. Mi interessava anche raccontare il mio Paese da un punto di vista poco considerato, ovvero quello dell'aristocrazia borghese terriera, la sua compromissione con il potere, ma anche la sua sfida al potere, nell'illusione di sopravvivergli. E mi interessava farlo con una profondità storica che si avvalesse di tutti i canoni del cinema classico, il western, il mélo, il film in costume».
Nelle tre ore circa di A herdade, la legge naturale degli imperi familiari si dimostrerà inflessibile, ma, ironia della sorte, la tenuta che Joao è riuscito a difendere dal regime parafascista e poi dal comunismo che con «la rivoluzione dei garofani» ne ha preso il posto, sarà alla fine inghiottita dalle banche del neoliberismo che alla lunga si è mangiato anche il socialismo riformista che al comunismo aveva dato il cambio.
Ritratto di un ultimo Gattopardo, imperfetto, segnato nell'infanzia dal suicidio del fratello maggiore incapace di reggere la durezza paterna, A herdade è anche, se si vuole, un film sulla fine di una certa immagine virile che in quel secondo Novecento portoghese si inabissa con il regime che in fondo l'aveva resa possibile, il padrone come dominus, capo incontrastato perché giusto, «unto del signore»...
Da qui anche l'incapacità ad accettare per figli caratteri diversi, la cui sensibilità viene scambiata per debolezza, e che si ritrovano ad essere vissuti come una vergogna, uno scherzo del destino, un insulto al proprio sangue, lì dove invece raccontano di un'estinzione per esaurimento. E così A herdade indica anche il momento in cui vengono a morire le famiglie, nonché le eredità che un tempo le univano e le rendevano possibili.
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