Scrive D. H. Lawrence - a Taormina, nei primi anni '20 - della nobiltà del creato e di se stesso in quanto uomo, del cosmo nel suo esser vivo e della singolarità umana: «Bolscevichi siciliani,/ Con fiori d'ibisco all'occhiello delle vostre giacche domenicali,/ Forza, parlando di diritti, che diritto avete su questo fiore?// La ricercata e senza tempo aristocrazia/ Di un'anima senza eguali./ / La ricercata delicatezza della nuova vita delicata/ Sorta dalle radici».
La vera aristocrazia è come nello scrittore: innata; e tale esiste anche nel figlio di minatore quale egli era, nato a Eastwood, vicino Nottingham, a fine Ottocento. Le sue idee a proposito, sono condensate in alcuni brevi saggi che costituiscono il nucleo segreto, denso come il nocciolo ribollente del sole, dei suoi romanzi.
Attorno a La corona (edito da SE), sunto d'aristocrazia solare e d'arcobaleno, gravitano le prose satelliti - tutte riproposte nella monumentale The Cambridge Edition of the Works of D.H. Lawrence edita a Cambridge - che sistematizzano l'idea d'uomo dell'autore. Vi spiccano, per efficacia, due prose: Democracy, del 1919, una critica - sviluppata anche nei saggi del volume Classici americani - del sistema whitmaniano, l'ego en-masse che tutto accoglie, e Aristocracy, del 1925.
Oggi la vecchia aristocrazia di sangue è scomparsa. O meglio, a esser precisi: l'unica vera aristocrazia è quella del sangue, solare. Un tipo d'aristocrazia che sì, è possibile in chiunque: ma non nel chiunque, l'Everyman della modernità. Non può essere in tutti, altrimenti non potrebbe essere.
L'esser parte di una massa è proprio ciò che tarpa l'espressione di sé, di un sé che è aristocratico o non è. L'unico vero modo di esprimersi è di farlo in quanto uomo, in connessione con il cosmo e con lo Spirito. Questo il sistema di Lawrence.
Mediatore è dunque lo Spirito. E mediatrice è anche la poesia. Scrive l'autore de L'arcobaleno: «La poesia è, di regola, o una voce del futuro lontano, ricercata ed eterea, o la voce del passato, ricca, magnifica. Quando i greci udivano l'Iliade e l'Odissea, udivano la voce del loro stesso passato che chiamava nei loro cuori (...). Per noi è lo stesso. I nostri uccelli cantano agli orizzonti».
Lawrence si rifà agli uccelli simbolo del canto, come l'usignolo, ma anche ad altri, il colibrì e l'aquila, e ad altre bestie: pesci, pipistrelli, zanzare, capre, tartarughe, serpenti, elefanti e canguri; e agli alberi, a frutti come il fico, l'uva, e a fiori come l'ibisco e la salvia; e alle bestie evangeliche, simboli dei quattro santi testimoni del Cristo. In cima, in accordo con l'ordine di Dio (Genesi 1,26), l'uomo padrone.
Alcuni, come la cagnetta («bitch»), sono usati come metafore della peggiore mediocrità. Altri sono descritti nella loro possente grazia d'esistenza. Tutti si realizzano per quello che devono essere, ossia per quello per cui sono stati creati. Il che, secondo Lawrence, è sempre meno vero per l'uomo.
Particolare, in Aristocracy, è la lettura che egli dà di Gesù Cristo e dei suoi seguaci, «ricchi di vita», alto modello d'aristocrazia dello Spirito - che non dipende dal denaro, ma dalla nobilità degli uomini - travisato spesso in un inno alla povertà o, all'opposto, in una sorta d'equazione (più calvinista) tra ricchezza materiale e conquista del regno dei cieli.
Particolare è anche la lettura dei rapporti di classe, per cui, all'opposto di Marx e discepoli, Lawrence vede nella povertà materiale non soltanto o non tanto una questione di risorse economiche (una tautologia), bensì delle minori risorse individuali quanto
a coraggio e vitalità, carattere e virilità.Spirito gregarista l'aristocratico D.H. Lawrence, figlio di proletari, certo non era, e non poteva accettare l'appropriazione, indebita, di cose come un ibisco. O l'arcobaleno.
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