In una tavola di un grande fumetto ci stanno molto più di un pugno di vignette. E in un albo, molto più di una semplice storia. Come accade a Dylan Dog, fumetto così grande da diventare prima un cult, poi un classico. E dentro Dylan Dog - con funanbolici giochi di citazioni e livelli di lettura incrociati che deliziano professori e fanzinari - c'è tutto. Nel nome dell'eroe, Dylan, c'è la piccola patria della poesia. Nella via londinese dove abita, Craven Road, mezzo cinema dell'orrore. Nei dettagli del suo abbigliamento, come le stringe rosse, pezzi di carattere. Nelle storie di Dylan Dog, creato 30 anni fa da Tiziano Sclavi, ci siamo tutti noi, coi nostri amori, le nostre paranoiche avventure quotidiane, i nostri desideri - che sono il vero motore della vita - e ovviamente le nostre paure. «L'orrore... l'orrore». Che prima di tutto è una citazione letteraria e cinematografica.
Tiziano Scalvi, 30 anni fa Lei dava vita a Dylan Dog. Poi, a un certo punto smise di scriverne le storie. Lo considera un figlio perduto?
«Assolutamente no. Tant'è vero che all'inizio di quest'anno ho scritto due storie. La prima, Dopo un lungo silenzio, uscirà a fine ottobre».
Era il 1986. Come nacque Dylan Dog?
«Nei primi anni '80 i fumetti erano in una crisi gravissima. Ciononostante, o proprio per questo, la casa editrice Bonelli aveva deciso di produrre nuove serie. Io ho proposto un argomento, l'horror, che è stato subito accettato. Sergio Bonelli era un grande appassionato del genere, come me... Poi, con tante riunioni di redazione e scrivendo e riscrivendo, il personaggio ha cominciato a delinearsi. La gestazione è durata due anni».
Esiste un segreto del successo di Dylan Dog? O perlomeno un fattore trascinante?
«Se lo avessimo saputo avremmo fatto, con questa ricetta miracolosa, tanti altri personaggi di successo. Ma la verità è che era un mistero, e lo è ancora oggi».
Quando è perché ha smesso di scrivere storie di Dylan Dog?
«È stato più di dieci anni fa, perché ero vecchio e stanco. Oggi sono ancora più vecchio, ma la voglia è tornata, come ho dimostrato rimettendomi a scrivere».
Quanto c'è di Tiziano Sclavi in Dylan Dog: quali fobie, sogni, desideri...?
«Paure tante, da quella per i pipistrelli alla claustrofobia all'agorafobia. Ma gli ho dato anche tanta della mia ironia».
Ha mai invidiato Dylna Dog? Lui ha tante donne, avventure, pochi ma buoni amici...
«Lo invidio solo per l'aspetto fisico. A proposito di fobie, ho sempre sofferto anche di dismorfofobia, cioè la paura di non essere normale».
Ha mai incontrato di persona Rupert Everett? Oggi è più famoso Dylan Dog di lui.
«Tanti anni fa è intervenuto trionfalmente a un'edizione del Dylan Dog Horror Fest, ma io non c'ero. Non vado mai a nessuna manifestazione. Comunque la tanto decantata somiglianza di Dylan con lui è esistita solo nei disegni preparatori di Claudio Villa, poi basta. Basta guardare l'albo numero 1 per rendersi conto che Rupert Everett non c'entra niente».
Una cosa che ha sempre affascinato i lettori è il livello citazionistico del suo Dylan Dog. Dentro Lei ci ha messo cinema, letteratura, arte, musica. Cos'è per Lei la citazione?
«Un gioco, e un modo di ritrovarsi tra amici che hanno le stesse passioni. Nel caso di Dylan tanti, tantissimi amici, i lettori».
Lei è scrittore. Perché ha smesso di scrivere romanzi?
«Boh, non mi vengono più. E poi, diciamolo francamente, i miei libri non mi hanno mai reso un soldo. Inoltro li trovo pessimi, sono contento che siano finiti tutti al macero e che oggi siano introvabili».
Però non ha smesso di leggere. Cosa legge oggi?
Soprattutto gialli e thriller. Adesso ne sto leggendo uno bellissimo, Il segno di Sarah Lotz.
Che cinema ama? E che musica?
«Tutto il cinema, da sempre il mio più grande amore. E tutta la musica, dalla classica al jazz, dal metal alla dance».
Una volta Lei ha detto: «È stato difficile vivere per me». Perché?
«È un argomento doloroso che preferisco non approfondire. Ho sofferto tantissimo».
Dylan Dog è nato nel 1986, in una certa Italia. Che Italia era? E che Italia è quella di oggi?
«Quella degli anni '80 neanche
me la ricordo, e di quella di oggi non so niente: non leggo i giornali e non guardo la tv da 17 anni. L'impressione, comunque, è di un Paese ripugnante, da cui, se avessi più soldi e più coraggio, me ne andrei per sempre».
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