Cultura e Spettacoli

E Calasso lesse la Bibbia al di là del Bene e del Male

Lo scrittore-editore affronta il «libro di tutti i libri» usando il solo «commento». Senza interpretazione

E Calasso lesse la Bibbia al di là del Bene e del Male

Conosco poco, e ne faccio ammenda, il Roberto Calasso studioso e scrittore. Il Calasso editore ha segnato, viceversa, la mia vita. Grazie a lui ho conosciuto Walser, Sebald, Naipaul, Severino, Hopkirk, Kincaid e soprattutto Thomas Bernhard, René Girard e, naturalmente, Friedrich Nietzsche. Nomi che valgono eterna gratitudine.

Prima di questo bellissimo Il libro di tutti i libri (Adelphi, pagg. 556, euro 28), dedicato alla Bibbia, di Calasso avevo letto soltanto Le nozze di Cadmo e Armonia. Ricordo che mi piacque, ma poi la mia lettura del mito greco si svolse lungo altri canali. Oggi un po' me ne pento, forse ho perso un interlocutore che poteva essere importante quanto i libri che, indirettamente, mi ha fatto leggere.

Bellissimo, ho detto, e in questo giudizio temerario includo anche i difetti o, comunque, gli aspetti che segnano una certa distanza non tanto ideologica (che mi piace) ma estetica. Calasso ci si presenta sempre un po' avvolto in un'atmosfera che non saprei se definire sacrale o d'apparato. Leggere i suoi scritti è come essere ammessi alla presenza di un alto dignitario ma solo dopo aver osservato un certo rituale (abluzioni, togliersi le scarpe, eccetera).

E questo fin dal numero che il nuovo libro occupa nella collana Adelphi: il 700, in numerosofia simbolo di illuminazione spirituale. Basterebbe questo numero a introdurci nell'atmosfera del libro, che non ci lascia mai senza i segni di una certa solennità. L'eccesso però non è un difetto, si scusi il calembour, e in ogni caso l'efficacia del libro non sta nello stile.

La grande erudizione che sottende tutto il libro non è, viceversa, mai esibita come tale, ma assume il passo felpato di una singolare mimesi. Se ci può essere una difficoltà, ma solo iniziale, nell'affronto del libro, essa sta non tanto nell'arduità concettuale quanto nel genere letterario adottato, che è quello del commento.

La cultura in cui siamo immersi è tutta segnata, viceversa, dall'interpretazione, che è qualcosa di opposto, forse incompatibile rispetto al commento. Il commento non si stende come un velo sopra il testo ma penetra in esso, lo fa fiorire, usa qualunque conoscenza per scavare in esso gallerie di senso, non cerca la soluzione di teoremi, non intende far tornare i conti ma si nutre di illuminazioni, di efflorescenze (le cerca, le invoca) accettando al tempo stesso le oscurità, i dubbi, le inevitabili insufficienze metodologiche. Il commento è cosciente della propria debolezza ma ne fa uso per conoscere di più: a differenza dell'interpretazione, che nelle debolezze rischia sempre il naufragio.

Il commento nasce, quantomeno per noi occidentali, nella cultura rabbinica e si trasmette nell'attitudine intellettuale dei primi commentatori medievali, a dispetto dei talora gravi conflitti tra impero cattolico e diaspora giudaica. Come sempre: ciò che la forza divide, la conoscenza ravvicina.

La lettura del libro può, si diceva, risultare difficile a motivo dell'apparente rapsodicità del testo. Non ci sono tesi, non c'è una vera e propria coerenza narrativa o teorica, ma solo un procedere come nel deserto, per segni labili, sentieri interrotti.

Con gesto sprezzante, felicemente offensivo, Calasso si libera di tutte quelle pur legittimissime chiavi etno-narrative - che io stesso adotto, spesso - che offrono una spettrografia storica del testo talora dimenticando il modo in cui il testo (specie se sacro) è stato letto. Se è per questo, tutto si stratifica, sempre, anche oggi (quanti elementi narrativi primordiali troviamo nel mondo Netflix!).

Ben consapevole di tutto ciò, Calasso tiene a bada filologia, pur conoscendola bene: respingendola non come strumento, ma come chiave di lettura. E legge la Bibbia al modo degli antichi commentatori, come un tutt'uno che ci si dà e che chiede di essere affrontato come un tutt'uno, con la reverenza e, insieme, l'ironia che sono parte dello stesso atteggiamento di familiarità, di confidenza.

La ritualità della scrittura calassiana ci introduce nelle stanze, nei letti. Non sorprende presenze numinose ma ci lascia a riflettere su come la più sacra delle storie mai raccontate si svolga spesso nel sangue e nello sterminio, dove il bene e il male non compaiono quasi mai nella loro ingombrante, moderna opposizione. Il principio di tutte le cose è infatti al di là del bene e del male, Dio fa sorgere il sole sui buoni e sui malvagi.

Calasso non è interessato, per fortuna, a marcare una differenza tra un passato teologico ormai tramontato e un presente nichilista o progressista e comunque tutto intramondano. Il suo occhio ravvicina le epoche, introducendo nuovi dubbi: forse il nostro stesso presente è più sacro di quanto immaginiamo, forse gli stermini di oggi non sono che la copia amplificata di quelli di allora...

Se uno è il protagonista della Bibbia, ossia Iahvè, Calasso ancora una volta non punta i fari su di Lui. Dio è un «torrente infido dalle acque incostanti» (Ger. 15) e non obbedisce all'ottusità dei narratologi, che esigono coerenza e sviluppo armonico nei personaggi romanzeschi. Calasso cerca, con discrezione, di sorprendere quei pezzettini di Dio che restano come impigliati nelle maglie del racconto, rivelandolo a tratti nelle infinite vicissitudini storiche che hanno costellato la difficile affermazione del culto di Iahvè e del suo rituale.

Tra le molte parole sulle quali la circospezione del commento calassiano torna periodicamente, due mi hanno colpito in modo particolare: «legittimità» e «stirpe», che a me pare facciano parte di tutto un armamentario forbicine e coltelli con i quali Calasso apre, con cautela, alcuni spiragli nella tenda segreta dove Mosè parla faccia a faccia con Dio.

Più volte Calasso osserva, fra la tradizione giudaica e quelle orientali, diversi punti di contatto nei quali però si fanno strada differenze nuove e radicali.

Uno di questi punti riguarda la regalità e la sua legittimazione all'interno di un contesto religioso che non sembra permetterlo. Iahvè accetta controvoglia, si direbbe, che il Popolo Eletto si dia dei re, ossia che si istituisca un'idea di sovranità legittimata in qualche modo da Lui stesso. La sovranità appartiene a Dio (Ps. 62), i cui pensieri e le cui vie non sono i pensieri e le vie degli uomini (Isaia).

La questione è complessa, e produce le sue conseguenze nell'ordinamento giuridico e nell'amministrazione della giustizia: tutto si fonda su Iahvè, che però è quello che Horkheimer chiamerà il totalmente-altro. Altro anche rispetto a ogni coerenza narrativa.

Calasso tuttavia non affonda su questo punto, e omette dal suo commento quel passo fin troppo esplicito del Secondo libro di Samuele (15, 24-26) nel quale re Davide, messo a mal partito dal suo stesso popolo schieratosi completamente dalla parte di Assalonne, «stava in piedi nella valle del Cedron e tutto il popolo passava davanti a lui prendendo la via del deserto. Ecco venire anche Zadòk con tutti i leviti, i quali portavano l'arca dell'alleanza di Dio. Essi deposero l'arca di Dio presso Ebiatàr, finché tutto il popolo non finì di uscire dalla città. Il re disse a Zadòk: «Riporta in città l'arca di Dio! Se io trovo grazia agli occhi del Signore, egli mi farà tornare e me la farà rivedere insieme con la sua Dimora. Ma se dice: Non ti gradisco, eccomi: faccia di me quello che sarà bene davanti a lui». Re Davide è interprete privilegiato dell'idea di sovranità secondo Iahvè: l'Alleanza fu stabilita da Dio con il suo popolo, senza intermediari, perciò lui accetta l'onere di una regalità ufficiosa.

Anche la parola «stirpe» ricorre molto nel libro di Calasso, e a buona ragione. Alla stirpe di Abramo, e poi a quella di Davide, e non agli atti dei singoli, Dio affida la sua permanenza nel mondo. Stirpi elette, perché l'Eletto, come ben dice Calasso, è «chi fa procedere le storie». Iahvè agisce nella storia talvolta attraverso, talvolta nonostante i singoli: la sua fedeltà è alla stirpe, non all'individuo. Molti interpreti sottolineano come il comandamento «non uccidere» non si riferisca tanto al valore della vita umana (ci vorranno secoli per giungere a tanto) quanto al fatto che l'omicidio come tale annulla un'intera possibile discendenza.

Un limite quasi obbligato del libro sta non tanto nella posizione filosofica dell'autore, che rinverdisce - anche nello stile editoriale - una linea gnostica già molte volte sottolineata, quanto nella riduzione a libro della grande anomalia della Bibbia, che sarà pure «il libro di tutti i libri», tema che Calasso tratta magnificamente, ma la cui forza spesso sconcertante sta in una specie di eccedenza che lo sostiene e lo nega a un tempo. Dio è il personaggio principale di un racconto ma sta, al tempo stesso, al di là di questo racconto, spesso lo osteggia, lo nega, intraprende e cancella di continuo cammini e vicende storiche. Dio non fonda storie legittime, non istituisce né regni né etiche. Dio è Dio, è misericordia, ossia mente e viscere, il suo cuore si commuove per i figli traditori (Osea), e non si accomoda né in una morale né in un libro.

Ne fa fede la grande questione messianica, controversa e difficile, che tuttavia si stende sull'Alleanza come il dubbio metodico di Dio stesso: sorgerà un uomo, uno solo (finalmente un individuo, non una stirpe!) nel quale Io possa compiacermi? La scommessa di Dio è di natura antropologica prima che religiosa.

Ma si comprende bene come questo punto, il più luminoso e sconcertante di tutta la Scrittura, possa al tempo stesso risultare il più oscuro, una sorta di precipizio dove, in modo inconcepibile, la Legge e i Profeti vengono ridotti al silenzio.

Commenti