La solita solfa. Siccome va di moda il biopic sui viventi, che poi non sono d'accordo su come li racconti, l'ultimo risentito d'eccellenza è Julian Assange. «Una bugia dietro l'altra", twitta il fondatore di WikiLeaks, commentando in negativo The Fifth Estate, film di Bill Condon su di lui e sulla storia del sito che ha sconvolto le regole della politica globale, pubblicando ingenti quantità di documenti riservati del governo Usa. «Il quinto stato» del titolo - al festival di Toronto il 5 settembre, nelle sale Usa dal 18 ottobre e distribuito da Rai Cinema il 24 - è Internet, vero potere del XXI secolo, e Julian, che aveva discusso il ruolo con l'attore protagonista Benedict Cumberbatch via e-mail e conversazioni Skype, alla fine s'indigna.
Parlando agli studenti di Oxford dall'ambasciata dell'Ecuador a Londra, dove è rifugiato per evitare l'estradizione in Svezia, ha scandito: «Il film è un attacco propagandistico di massa a WikiLeaks e al mio staff». Di danni collaterali, Assange è esperto, ma pur considerando che i suoi cinguettii hanno 2 milioni di seguaci, il marketing Disney gode. Da distributrice del biopic prodotto dalla Dreamworks di Spielberg, manda a dire un paio di cosette. La prima è che il mercato se ne frega della filologia: chi conosceva Mark Zuckerberg e la storia di Facebook, prima di The Social Network, film di successo, nonostante le critiche del diretto interessato? E, siamo seri, chi conosce veramente Assange e il suo datagate? E i 108 milioni di dollari incassati da Zero Dark Thirty hanno chiesto permesso ai senatori Usa contrari al film, prima di tintinnare in cassa? Ben vengano le polemiche e al diavolo la ricostruzione filologicamente corretta. Di fatto, il quarantenne Assange, eroe o ciarlatano che sia, è oggetto d'attenzione proprio perché non si sa chi è. Neanche lui lo sa bene: ha conosciuto il padre a 27 anni e il cognome gliel'ha dato Brett Assange, marito di mamma Christine e proprietario d'un teatrino di marionette. Pare simbolico: Julian ha registrato WikiLeaks col nome del puparo. In questa storia, del resto, l'identità c'entra parecchio: Bradley Manning, l'ufficiale 22enne che, da analista dell'esercito Usa a Baghdad, passò a WikiLeaks 700mila documenti top secret, soffre di «disordini identitari di genere». E ha un alter ego femminile di nome Brenna, sostengono i suoi avvocati.
The Fifth Estate si basa su due libri: Inside WikiLeaks di Daniel Domscheit-Berg, partner di Assange, (nel film, Daniel Bruehl) e fondatore del competitor OpenLeaks. Poi c'è Inside Julian Assange's War on Secrecy, scritto dai giornalisti del Guardian David Leigh e Luke Harding. «È stata una sfida rendere dinamica la storia. Il mio film genera più domande che risposte. E rende eccitanti le domande mentre le pone», chiarisce il regista Bill Condon.
Sulle fonti giornalistiche si basa anche il docufilm indipendente Usa di Alex Gibney We Steal Secrets: The Story of WikiLeaks, uscito in poche sale, nonostante il lancio al Sundance. Partendo da un articolo sul New Yorker di Raffi Khatchadourian, nel 2010 al seguito di Assange mentre preparava il video sull'attacco Usa a Baghdad, che costò la vita a molti civili, Gibney (finanziato da HBO e BBC) traccia un ritratto dell'icona globale. Non simpatico, anzi. Intervistando ex colleghi, giornalisti che hanno lavorato con Assange e le due donne che l'hanno accusato di violenza sessuale, il regista mostra il lato oscuro di chi ha aperto il vaso di Pandora. Non a caso una fonte di Gibney è il libro-inchiesta Private: Bradley Manning, WikiLeaks and the Biggest Exposure of Official Secrets in American History di Denver Nicks. Una vita privata piena di buchi neri: per raccontarsi a Gibney, Assange ha chiesto un milione di dollari. Richiesta irricevibile.
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