Cultura e Spettacoli

Ecco la storia del vero Rocky che resistette ai pugni di Ali

Nel film fuori concorso "The Bleeder" la vita del pugile è un ritratto degli Usa anni Settanta. Si raccontano gli anarchici, Bukovski e i braccianti di Steinbeck

Il regista e documentarista Charlie Siskel
Il regista e documentarista Charlie Siskel

da Venezia

Il vero Rocky Balboa, «lo stallone italiano», si chiamava Chuck Wepner, «il sanguinante del New Jersey», e negli Stati Uniti dei Settanta resistette per 15 riprese, sul ring di Richfield, contro Cassius Clay-Muhammad Ali, che mesi prima, a Kinshasa, aveva messo al tappeto George Foreman e si era ripreso il titolo di campione del mondo. L'anarchico per caso di quel decennio era invece il diciannovenne William Powel: in un libro, The Anarchist Cookbook, aveva messo nero su bianco come fabbricare ogni genere d'ordigni, dalle bombe ai lanciafiamme, per poi trascorrere il resto della sua vita a evitare «l'inquietante ombra di se stesso» e la follia di chi quel «ricettario di morte» aveva sperimentato su vittime innocentiLo scrittore più rappresentativo, infine, di quella decade aveva per nome Charles Bukowski e da Storie di ordinaria follia a Factotum aveva raccontato la vita agra che si nascondeva dietro le mille luci effimere di Los Angeles

Tre storie esemplari di quell'«altra America», fatta di sconfitti e di alcolizzati, di duri e di esaltati, di irriducibili individualisti, cani perduti e senza collare, che era il portato finale ed estremo della Grande Depressione e del New Deal precedenti alla Seconda guerra mondiale, quando la forza-lavoro si era faticosamente trasformata da carne da cannone, i braccianti e gli operai dei romanzi di John Steinbeck con i loro titoli emblematici, Furore, Uomini e topi, La battaglia, in realtà sociale

A questa «altra America» ieri il Festival ha reso omaggio, fuori concorso con The Bleeder, di Philippe Falardeau, American Anarchist, di Charlie Siskel, You never had it, di Matteo Borgardt e, nella sezione Cinema in giardino, con In Dubious Battle, di James Franco. Films il primo e l'ultimo, documentari i due di mezzo, tutti e quattro interessanti e a loro modo esemplari per costruzione. Una serata intima, di vino e dal vivo per Bukowski, uno stile alla Michael Moore per il mea culpa anarchico e uno stile epico e letterariamente vincente per la resa cinematografica dell'omonimo romanzo steinbeckiano. Con i camei di Tom Shepard, Robert Duvall, Ed Harris e John Savage, Franco costruisce una vera e propria tragedia greca, dove cinismo e idealismo si scambiano le parti. Quanto a The Bleeder, Falardeau evita con intelligenza il cliché pugilistico e grazie a Liev Schreiber (Chuck Wepner sullo schermo) dà vita a un vero e proprio viaggio negli anni Settanta: musica, abiti, design, alcol e droga. Oggi settantasettenne, Wepner vive sempre nel New Jersey, continua nella sua professione di venditore di liquori, è un gigante ironico e appagato.

Nella loro diversità, i titoli citati rappresentano uno spaccato umano e generazionale, nonché portano in primo piano temi che continuano a tenere banco: la libertà di stampa e la responsabilità degli intellettuali, la creatività artistica e la difficoltà a rapportarsi con la routine della vita quotidiana, il fascino e il pericolo della popolarità, la lotta dell'uomo contro se stesso, i propri fantasmi, le proprie debolezze, la dignità e la voglia di cadere sempre e comunque in piedi.

Un'America amara, eppure un'America viva.

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