Cultura e Spettacoli

Gli effetti collaterali della guerra del Vietnam sotto la torre Eiffel

Nuove disavventure per la spia senza nome de "Il simpatizzante". Questa volta a Parigi

Gli effetti collaterali della guerra del Vietnam sotto la torre Eiffel

Sulla guerra del Vietnam si sono costruite montagne di film e scritti fiumi di parole. Un ex mattatore comico diventato grottesco caratterista tentò persino di buttarla sul ridere, quando nel 2013 urlò da un social network: «Questo ventennio è stato un Vietnam per gli italiani, ma voi avete ancora la possibilità di salire sull'ultimo elicottero come gli americani sui tetti di Saigon nel 1975».

Il vietnamita Viet Thanh Nguyen, di quella guerra ha sfiorato gli ultimi fuochi, essendo nato nel '71. Poi è volato negli Stati Uniti, appunto nel '75, con la famiglia. E dopo quarant'anni ha vinto la sua personalissima guerra del Vietnam, pubblicando il romanzo Il simpatizzante (Premio Pulitzer nel 2016, prontamente edito in Italia da Neri Pozza), in cui faceva i conti con la drammatica storia del Paese d'origine, ricostruendola in una fiction che aveva molto del reality (ma non show) in presa diretta. «Sono una spia, un dormiente, un fantasma, un uomo con due facce»: così il Narratore, un Capitano dei servizi segreti sud vietnamiti, ma agente sotto copertura dei Viet Cong, parlando in prima persona apriva quella che, come si sarebbe appreso alla fine, era la sua confessione in pubblico. La confessione di un rifugiato (im)politico.

C'era pochissima guerra guerreggiata, nel Simpatizzante, e invece moltissima guerra di posizione dei vari personaggi i quali, volendo logorare il nemico, finivano per logorare sé stessi. Inoltre, nonostante il ventennio della guerra del Vietnam avesse ricevuto il testimone avvelenato dal quasi decennio della guerra d'Indocina, non c'era traccia della Francia. Anzi no, un labile collegamento con gli altri colonizzatori-nemici del Vietnam (e non solo) c'era: lo scambio di lettere, scritte con inchiostro simpatico, fra il Capitano e la «zia di Parigi». Zia non sua, ma di Man, il fratello di sangue comunista del Narratore, mentre Bon ne era il fratello di sangue anti-comunista. E ora, in Il militante (Neri Pozza, pagg. 432, euro 19, traduzione di Luca Briasco), Viet Thanh Nguyen, tirando quel filo che collega anche Saigon e Los Angeles, completa con Parigi un triangolo pericoloso come quello delle Bermude.

È il 18 luglio 1981 quando il Capitano atterra nella «Città della Luce». Sul suo passaporto c'è scritto «Vo Danh», ma chi glielo controlla non sa che «Vo Danh» significa «Anonimo». E lui, ancora nelle vesti di Narratore di fatti più o meno lontani, sorride al ricordo: «Era stato il mio piccolo scherzo nei confronti della burocrazia francese, perché se non si riusciva neanche a scherzare con la burocrazia si rischiava di ripiegarsi su se stessi e morire di ennui». Sono trascorsi soltanto sei anni da quando ha lasciato Saigon, sei anni che sembrano una vita. Passando da Place de la Bastille, riflette: «Se una volta ero stato un comunista e un rivoluzionario, allora anch'io ero un discendente di quell'evento che aveva decapitato l'aristocrazia con l'irrevocabilità di una ghigliottina». Come diceva Ferdinand de Saussure? «Tout se tient». Quindi è giusto che un ex giacobino si trovi da quelle parti. Del resto da quelle parti abita la «zia» che ha proposto di ospitarlo. Per la precisione in rue Richard Lenoir. Chissà se l'autore l'ha fatto di proposito, per darci un indizio sul tono del libro? Guarda caso, in rue Richard Lenoir abitava il commissario Maigret... E vedremo, proseguendo la lettura, come l'impianto del romanzo si discosterà dalla spy story del Simpatizzante per avvicinarsi al noir.

Di tono noir, per cominciare, è il salotto della zietta intellettuale, editor à la page tendente a gauche, la quale si concede dietro congruo compenso, fra una visita di Ionesco e varie sigarette all'hashish, a uno psicanalista maoista e a un politico socialista. E molto noir è la combriccola per delinquere in cui viene arruolato il Capitano, composta da: il Boss; Le Cao Boi, suo «feldmaresciallo» e come lui di etnia cinese; il Ronin, una sorta di mercenario còrso; i Sette Nani, cioè la bassa manovalanza che presta servizio in una topaia mascherata da ristorante vietnamita. Mascherata perché? Per spacciare una droga più pesante del poetico oppio, la cocaina, ovvero il «rimedio», come la chiamano quelli del giro. In concorrenza con chi? Ovvio, con una altrettanto a delinquere combriccola di algerini che hanno il dente avvelenato nei confronti dei francesi. Di nuovo, tout se tient.

«A credere nella rivoluzione sono soltanto quelli che non ne hanno vissuta una», filosofeggia il Capitano con la zietta, incline anche a concedersi a una radiosa avvocatessa la quale prende le parti nientemeno che di Ho Chi Minh. Dopo che il Nostro, travestito da turista giapponese con macchina fotografica d'ordinanza, battendo Parigi come una putain in cerca di clienti, viene riempito di botte dai nordafricani, il Boss gli concede una settimana di permesso pagato al Paradiso, un bordello di lusso con vista sulla torre Eiffel.

Ma la guerra è appena iniziata, e proseguirà a colpi di imboscate, torture, mitragliate. I bastardi senza gloria dell'una e dell'altra parte, in questo teatro grandguignolesco alla Tarantino, sembrano giocare a guardie e ladri, invertendosi i ruoli a turno. Sotto, però, cova sempre il lied di Viet Thanh Nguyen: la dialettica triade composta dai fratelli di sangue Capitano-Man-Bon.

Una dialettica che, anche questa volta, non giungerà alla sintesi.

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