Entrambi lasciamo parlare le cose

Firenze, 12 maggio '63

Carissimo Vittorio, la tua lettera mi ha commosso e anche un po' sorpreso una gradita sorpresa. È vero, le strade in cui ci mettemmo da giovani sembravano più divergenti, ma avevano, a ben guardare, questo in comune: l'ambizione di lasciar parlare le cose, di non prevenirle con il nostro giudizio, con nessun apriori teoretico. Il modo di percepire e anche la volontà di significazione potevano essere ben distinte come ancora lo sono: l'educazione e, non sottovalutiamola, la forma mentis naturale potevano e possono orientarci in atteggiamenti e posizioni distanti e io ho sempre ammirato la tua intima duttilità e la tua capacità di illuminare vitalmente il contenuto senza bloccarlo, investendotene e passandoci in mezzo come la corrente elettrica ma, a seguirla fino in fondo, quando ci fossimo liberati di molte soggettive parzialità (gravi soprattutto da parte mia), quelle strade dovevano condurci a osservare oggettivamente uno stesso ordine di fenomeni, a «far parlare» le cose che esistono, che ci sono ora. Il fatto che tu le senta vicine mi conforta della loro oggettiva realtà, che era il mio proposito più forte. Quanto a ciò che facciamo loro dire o tentiamo, mi pare e anche a te del resto che ci siano tutte quelle differenze le quali giustificano la nostra assoluta indipendenza sebbene chi potrebbe escluderlo? anche il tuo esempio e la tua presenza abbiano probabilmente avuto per me il loro peso. L'interesse e il favore che hanno incontrato le tue vecchie e nuove poesie ti assicurano che si tratta di esperienze ben tue le quali non ammettono confronti se non a spese di chi volesse provocarli. E io mi auguro proprio per me che non venga in mente a nessuno di impostarlo il che del resto sarebbe contrario a ogni sia pur modesta facoltà di lettura e di critica (...).

Ti abbraccio con tanto affetto, il tuo

Mario

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