Eravamo giovani e belli, ma il destino ci ha traditi

Gli anni '90 di Kechiche sono senza tensioni politiche e sociali. Invece stavano per esplodere

Eravamo giovani e belli, ma il destino ci ha traditi

Dal nostro inviato

Sarà un caso, ma nei due film francesi finora presenti in concorso, giorni fa La Villa, di Robert Guédiguian, e ieri questo Mektoub My Love: Canto Uno, di Abdellatif Kechiche, è come se il tempo si fosse fermato, o non fosse mai passato, il che è poi la stessa cosa. Nel primo c'è una Francia di oggi che pensa e agisce come se fosse ancora all'epoca del Fronte popolare del 1936, i restos du coeur, i ristoranti del cuore, a basso prezzo e per chi ha pochi soldi, il comunitarismo sociale, la fierezza delle classi lavoratrici e degli umili, la solidarietà degli amici, dei parenti, dei compagni Nel secondo, ci sono ancora gli anni Novanta in cui les arabes, in questo caso tunisini, sono anche les français, la ragazza di Nizza può innamorarsi del tubib che la illude di portarla con sé in vacanza ad Hammamet, quella di Sète ha come amico più fedele, anche perché segretamente innamorato, il rampollo intellettuale maghrebino di una famiglia che del cous cous ha fatto la sua fonte di guadagno. Fra loro, una miriade di parentele tribali, genitori sposati e genitori separati, coppie libere, sesso e voglia di divertirsi lungo un'estate dove è il destino, il mektoub del titolo, a governare la vita di chi cerca chi, chi trova chi

Se Guédiguian si rifugia in un mondo ideale che resiste testardamente a tutto ciò che lo circonda, Kechiche fa un passo indietro verso un come eravamo che lo riguarda personalmente e che concerne la nazione in cui ha scelto di vivere. Non sta a chiedersi se il verme fosse già nella mela, se il terrore e l'orrore che lì ha cominciato a punteggiare il nuovo secolo covasse le sue ragioni in quello appena trascorso, se, insomma, l'interscambio culturale e razziale, il multiculturalismo, fosse soprattutto di facciata e quanto fosse solido. Quello che vuole è comunicare l'idea, e l'immagine, che la mela fosse buona, andasse morsa e se ne godesse il succo.

Così, Mektotub My Love. Canto Uno è, come egli stesso si trova a constatare, «un inno alla vita, un inno al corpo» in cui gli elementi autobiografici si innestano a quelli del romanzo da cui il film è tratto, La Blessure, la vraie di François Bégaudeau. La vera ferita, ovvero il pregiudizio reale, riguarda l'educazione sentimentale del protagonista, giovane intellettuale appassionato di cinema e di fotografia e alle prese con i problemi sentimentali, i segreti e le bugie fra amici, la fedeltà ai propri sogni: «L'idea del Mektoub, del destino - dice il regista - c'è già in quella di fare un film, come nell'idea stessa dell'amore, dell'esistenza Qui siamo soltanto al primo episodio, ne seguirà un secondo e spero un terzo. È il racconto di un'epoca in cui tutto era più armonioso». Soprattutto, è la storia di quell'invincibile estate che è la giovinezza, il suo colore, il suo odore, il suo sapore, lungo spiagge e discoteche, trasalimenti e amarezze e che spesso finisce quando si pensa sia appena cominciata.

Leone d'argento qui a Venezia dieci anni fa per Couscous, Palma d'oro a Cannes nel 2013 con La vita d'Adele, per Kechiche vale quell'ironico ammonimento che suona «non avevo tempo per scriverti una lettera breve, così te ne mando una lunga».

Abilissimo nelle riprese, incollate praticamente sui volti e i corpi dei suoi attori, maestro, grazie a una solida sceneggiatura, nel trasformarne la recitazione in vita vissuta, una naturalezza nei volti e nei dialoghi che è un piacere per chi guarda e ascolta, soffre di una bulimia e di un narcisismo autoriale che gli impediscono il distacco necessario per asciugare, tagliare, ridurre. Mektoub My Love. Canto Uno dura tre ore, di cui almeno una è di troppo.

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