Davide Brullo
Per uno scrittore è quasi una benedizione. Morire nello stesso giorno in cui Dante passa all'altro mondo. Ermanno Rea non è riuscito ad arrivare a 90 anni (li avrebbe compiuti la prossima estate), ma è morto 695 anni dopo il divin poeta. Non preoccupatevi, comunque, rimboccate le lacrime, altro che elaborazione del lutto, Feltrinelli ha già in stampa il suo ultimo romanzo, uscirà il 13 ottobre prossimo, s'intitola Nostalgia, e sappiamo che è ancora una volta ambientato a Napoli, nel Rione Sanità, che il protagonista si chiama Felice Lasco e che sarà ucciso dal suo antico amico d'infanzia. Roba da tragedia greca e da cronaca nera, due caratteri, in fondo, che contraddistinguono la narrativa di Rea, uno che è stato troppo giornalista e troppo poco scrittore.
In principio, in assoluto fu l'impegno. La storia di Rea è legata a quella del Partito Comunista, protagonista pressoché in tutti i suoi romanzi (anche dell'ultimo, Il caso Piegari, in cui narra la storia di Guido Piegari, uomo di sinistra troppo «sinistro» per il Pci di Giorgio Amendola, che gli comminò l'espulsione), di cui ha recensito le glorie e le sconfitte. Senza mai rinnegarne i madornali errori: «Credo che la democrazia sia debitrice nei confronti dei comunisti italiani», disse, nel 2011.
Fedele al mito della Resistenza («Io sono stato partigianello nelle montagne toscane in età molto giovane»), radicale di sinistra, schierato contro la sinistra radical chic, nel 2014 salì sul carro de L'Altra Europa con Tsipras (e con lui una bella truppa di intellettuali «impegnati» come Moni Ovadia, Valeria Parrella, Loredana Lipperini, Ivano Marescotti). Candidato alle Europee, capolista nella Circoscrizione Italia meridionale, pigliò 11mila preferenze, senza essere eletto. Gli è andata meglio con i numeri del mercato editoriale: lo scrittore de La dismissione (da cui, dieci anni fa, Gianni Amelio trasse il brutto film con Sergio Castellitto, La stella che non c'è), ha conquistato tutta la sfilza dei premi più importanti del Belpaese. Viareggio nel 1996, Campiello nel 1999, finalista allo Strega nel 2008, l'edizione vinta da Paolo Giordano. A cui va sommata, dal 2002 al 2007, la presidenza del Premio Napoli (che sotto la sua direzione, forse non per caso, premierà un libro contraddittorio come Il fasciocomunista di Antonio Pennacchi). Ermanno Rea, già onestamente antologizzato in alcuni repertori scolastici (dove, poveretto, lo installano tra le «scritture che restituiscono le trasformazioni del mondo del lavoro», insieme a Silvia Avallone...), è noto per lo più per Mistero napoletano (1995), libro corrosivo e corrusco edito da Einaudi (ora esce per Feltrinelli), che indaga nelle viscere del suicidio di Francesca Spada «compagna», giornalista de l'Unità, amica di Rea. Di fatto, resta il libro più interessante di uno scrittore con una ostinata vocazione giornalistica, fedele alla verità dei fatti più che alle peripezie dell'immaginazione, che cominciò con una inchiesta sul Mezzogiorno (1974), per poi esordire davvero, ultraquarantenne, con il reportage Il Po si racconta. Seguiranno libri sostanziosi (e ottimamente recensiti dalla critica) come Napoli ferroviaria (2007), La fabbrica dell'obbedienza (2011), il «libro-sfogo, legittimamente disordinato» in cui Rea denuncia la propria visione del mondo (l'italiano consapevole e cittadino attivo sarebbe stato ridotto a servo del potere e a opportunista consumatore dal maglio del Sant'Uffizio), La comunista (2012) e Fuochi fiammanti a un'hora di notte (1998), libro un po' più ambiguo rispetto agli altri, con bagliori di utopia onirica, perciò quasi introvabile in libreria.
La letteratura nostrana, quella di Rea, in sostanza, era e resta una narrativa «sociologica», di partigiani dell'impegno civico prima che estetico. Con dolorosa grazia, da guru di sinistra ma non da servile servitore «di partito», Rea s'insinua in un canone che tiene insieme, con il requiem delle distinzioni del caso, Mario Soldati e Guido Piovene, Goffredo Parise, Enrico Emanuelli e Mario Pomilio, quasi concittadino di Rea, autore di libri vertiginosi e abissalmente «politici» (La compromissione, ad esempio).
«Realtà vince il sogno», direbbe Carlo Betocchi, morto 30 anni fa, ennesimo scrittore dimenticato in questa palude letteraria. Quando ci lascia uno scrittore della stazza di Rea viene da dire, sempre, come un cronico refrain, «Se ne va l'ultimo dei classici». Segno che la letteratura italiana è messa piuttosto male.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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