Il rapporto tra lo Stato e la famiglia è da sempre una questione complicata. Lo è ancora di più in un'epoca in cui anche definire con chiarezza che cosa sia una famiglia è diventato particolarmente difficile. Il mondo globalizzato tende a privilegiare l'individuo rispetto al gruppo, quindi le famiglie, che secondo Aristotele erano la base naturale della società, rischiano di essere percepite come un residuo del passato. In un mondo dove ci si sposta sempre di più, modelli diversi di convivenza, provenienti da diverse culture, rischiano di essere giustapposti gli uni agli altri, rendendo difficile strutturare la società e la creazione di un modello condiviso di aiuto alla famiglia. Ne abbiamo parlato con Francesco Belletti, docente di Sociologia della famiglia presso l'Università Cattolica di Milano e Direttore del Cisf (Centro internazionale studi famiglia), che ieri al festival èStoria di Gorizia ha parlato di «Stati di famiglia» con l'antropologo francese Emmanuel Todd.
Perché un incontro intitolato «Stati di famiglia»?
«Il titolo è pensato per rendere l'idea di quanto ormai la famiglia sia diventata un'entità plurale e sia difficile definirla. Il fatto che esistano diversi modelli di famiglia non è necessariamente un male, anzi! Però il rischio è che il concetto, come direbbe Zygmunt Bauman, diventi liquido, anneghi nell'indefinitezza».
Aristotele considerava la famiglia la base della società, un nucleo fondamentale dal punto di vista sia economico, sia emotivo. Ha ancora un senso quella definizione?
«La parola economia indicava in origine proprio l'amministrazione domestica. L'idea di famiglia di Aristotele pone con forza l'accento sulla concretezza del legame familiare. Credo che mantenga una sua validità. Oggi si insiste molto sulla famiglia soltanto come legame emotivo. Ma la famiglia ha anche altri ruoli. Ad esempio Cicerone considerava la famiglia un seminarium rei publicae».
La riflessione sulla famiglia è proseguita per secoli, basta pensare ai Quattro libri della famiglia di Leon Battista Alberti. Oggi si è un po' persa?
«No, di famiglia si scrive moltissimo. Ma se ne parla unicamente per rimarcare quanto sia un oggetto sfocato. Manca una riflessione capace di definirla davvero. Bisogna rendere di nuovo la famiglia un oggetto sociale individuabile. Dire che la famiglia è tendenzialmente una coppia non significa escludere che esistano famiglie monogenitoriali, ma una base definitoria serve».
Siamo in un'epoca di grandi migrazioni. Quale effetto ha, questo, sulla famiglia?
«Esistono ormai famiglie transcontinentali. Il concetto di stare sotto lo stesso tetto ormai non è fondamentale come una volta. Le relazioni possono rimanere stabili anche senza essere tutti nello stesso posto. In Gran Bretagna c'è una lunga tradizione di studio sulle famiglie dei marinai. Si può fare il padre anche stando lontano, si può restare autorevoli ed essere un punto di riferimento anche con una presenza limitata. Quindi, ciò che sta accadendo adesso non per forza dev'essere considerato un fenomeno nuovo. Come dicevo prima, sarebbe importante focalizzarsi sugli invarianti della famiglia. Secondo me è un buon punto di partenza la definizione di Lévi-Strauss: La famiglia è un crocevia tra i sessi e le generazioni. Quella è la funzione che bisogna assolutamente farle mantenere».
Parliamo anche del rapporto tra Stato e famiglia. In Europa ci sono modelli diversi... Ce n'è uno che le piace in particolare?
«In Europa c'è una grande differenziazione e questa varietà alla fine è una risorsa. Si parla spesso del modello francese. Ma quello francese è più un supporto alla natalità che alla famiglia. Infatti in Francia quasi il 50 per cento dei bambini si trova in una situazione monogenitoriale. Poi c'è il modello scandinavo, che vede un grande welfare incentrato proprio sulla famiglia. Nel mondo mediterraneo ci sono meno supporti alla famiglia, anzi spesso è la famiglia a fornire sussidiarietà allo Stato. In questo caso c'è più libertà, ma meno sostegno. Negli ultimi tempi invece sta sviluppandosi anche un altro modello, che potremmo chiamare ungherese-polacco, che cerca di conciliare la libertà delle famiglie con l'aiuto statale. Io lo trovo molto interessante».
Come vede il futuro della famiglia?
«Difficile fare previsioni. La famiglia è in un momento di fragilità ed è probabile che il trend resti questo. Si ritardano sempre più le decisioni permanenti, come sposarsi e soprattutto avere figli. È il risultato di una cultura che commercializza anche le relazioni personali.
Però ci sono milioni di persone che creano ancora delle famiglie. Insomma, gli alberi cadono, ma la foresta non è ancora morta. Ci sono segni preoccupanti, ma per la maggioranza delle persone la famiglia è ancora il posto migliore per crescere i cuccioli d'uomo».
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