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"Feci decine di scatti, poi arrivò quello. Dopo buttai tutto e corsi a salvarlo"

Ora vive a Los Angeles: "I rifugiati ucraini mi dicono: Vai laggiù"

"Feci decine di scatti, poi arrivò quello. Dopo buttai tutto e corsi a salvarlo"

Nick Ut: Lei ha scattato una delle foto più celebri della storia. Era l'8 giugno 1972.

«Ricordo bene quel giorno: ero lì, sulla Route 1, nel Vietnam del Sud, nel villaggio di Trang Bang, occupato dai vietcong».

Lei aveva ventun'anni.

«Inizia a lavorare per la Associated Press a 16, dopo che mio fratello, anche lui fotografo, morì in guerra. Avevo uno scooter e una macchina fotografica: quando vedevo il fumo, correvo verso il posto da cui si alzava».

E quel giorno?

«C'era stata una soffiata: dicevano che l'esercito del Vietnam del Sud avrebbe attaccato per liberare la zona. Eravamo una dozzina fra fotoreporter e operatori, fin dalla mattina alle 8».

Ma solo Lei fece la foto della vita: alla piccola Kim.

«Rimasi lì tre ore a documentare tutto. Cominciarono a bombardare le case e il tempio del villaggio. Seguii una parte delle truppe per un chilometro, facendo moltissime foto, poi tornai sulla Route 1: vidi due elicotteri sopra di noi. Pochi minuti dopo arrivarono i Douglas A-1 Skyraider della Forza aerea del Vietnam del Sud e sganciarono le bombe al napalm».

E cosa accadde?

«Pensato che fossero tutti morti, ma poi dalla nuvola nera vidi uscire delle persone che correvano verso di noi, tra cui una donna, la nonna di Kim, con un bimbo di tre anni in braccio. Feci una foto, e dopo un secondo il piccolo era morto. Poi è apparsa la bambina, le andai incontro e scattai la fotografia».

Quella entrata nella storia.

«Appena Kim mi passò di fianco, superandomi, mi accorsi che le sue braccia e la schiena stavano bruciando. Urlava. Smisi subito di scattare. Avevo quattro macchine fotografiche addosso, le lasciai lì, presi delle bottigliette d'acqua e gliele versai addosso, ma lei continuava a urlare».

E poi?

«In quel momento sulla strada eravamo rimasti io e un collega della BBC. Avevo un furgoncino. Abbiamo caricato tutti i bambini, poi ho preso in braccio Kim. Urlavano tutti, lei piangeva: Sto morendo, sto morendo.... Sapevo che ci avrei messo 20-30 minuti per arrivare all'ospedale... Avevo paura morisse. Appena arrivati mi sono precipitato dentro. Dovete aiutarla, gridai. Ma l'ospedale era piccolo, non avevano medicinali. Non volevano la lasciassi lì, dicevano di portarla a Saigon. Io gridai che avevo delle foto, che se non l'avessero aiutata avrebbero passato guai. E così la presero».

Le ha salvato la vita.

«La rincontrai molto tempo dopo, quando uscì dall'ospedale. Io ripresi il mio lavoro. Fino al '75, alla fine della guerra».

Una foto può cambiare la guerra?

«Può cambiare la percezione che la gente ha della guerra. La mia servì a quello».

Ne servirebbe una simile in Ucraina.

«Io vivo a Los Angeles, e alcuni rifugiati ucraini mi hanno detto: Vai là, fai capire a tutti cos'è davvero la guerra».

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