Il film del weekend: " Una doppia verità"

Un legal-thriller convenzionale, dotato di un buon cast e di qualche colpo di scena ma mai in grado di sorprendere fino in fondo

Il film del weekend: " Una doppia verità"

Keanu Reeves è protagonista, assieme ad un'irriconoscibile Renée Zellweger, di "Una doppia verità", noir processuale diretto da Courtney Hunt, già regista nel 2008 dell'acclamato "Frozen River - Fiume di Ghiaccio". La pellicola è godibile ma sembra arrivare sul grande schermo con qualche anno di ritardo: sa, infatti, di già visto.

Mike Lassiter (Gabriel Basso) è un diciassettenne accusato di aver ucciso il padre, avvocato di spicco a New Orleans (James Belushi). L'esito del processo è apparentemente già scritto perché il ragazzo ha ammesso la propria colpevolezza sulla scena del delitto, di fronte alla polizia e, da allora, si è chiuso in un ostinato silenzio. Si rifiuta di parlare perfino con il proprio difensore, Richard Ramsey (Keanu Reeves), amico di famiglia che ha promesso alla vedova, Loretta (Renée Zellweger), di ottenere la piena assoluzione del figlio.

Tutti mentono, avverte in una delle prime scene l’avvocato interpretato da Keanu Reeves. E' questo il mantra di un film la cui ambiguità include perfino la voce fuori campo. In un'opera narrativamente convenzionale, l'inaffidabilità dei protagonisti è una manna per fuggire l'atmosfera monocorde e il sentore di prevedibilità, qui particolarmente alto. Il problema è che "Una doppia verità" non ha assi nella manica: in mezzo ai tanti piccoli flashback evocati in sede processuale dalle parole dei testimoni, sono disseminati alcuni falsi indizi che conducono a depistaggi e a svolte improvvise ma mai davvero impreviste.

Nella ricostruzione a ritroso della sanguinosa vicenda, il film ha il pregio di non essere prolisso né noioso e di tenere desta l'attenzione dello spettatore. Eppure, forse in parte a causa della messinscena minimale o per la fissità recitativa di un Keanu Reeves algido come non mai, quello che manca è la tensione psicologica: durante gli interrogatori, tra verità dichiarate o presunte, non ci si sente mai sull'orlo della sedia, coinvolti emotivamente.

Lo script è curato nei minimi particolari

ma suona come già esplorato nel campo della serialità televisiva degli ultimi anni. Non bastano intuizioni felici come quella di far vestire a Jim Belushi i panni di odioso padre padrone per dare una patina di originalità.

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