Folle, mitico, estremo Torna Leos Carax, regista nefasto e di culto

Folle, mitico, estremo Torna Leos Carax, regista nefasto e di culto

Applausi e fischi contrappongono, più o meno equamente, la stampa alla prima proiezione di Holy Motors, «Macchine benedette», di Leos Carax, regista tanto più mitico quanto meno film gira. L’ultimo era più di dieci anni fa, Pola X (anche qui la critica divisa, ma il pubblico compatto nel non andarlo a vedere), e altri otto erano passati da quello che è considerato il suo capolavoro e la sua rovina: Les amants du Pont Neuf, film bellissimo, visionario, commosso e commovente, poesia e immagine al più alto grado. Eppure, film nefasto: costi alle stelle, cinque produttori falliti, la fama, la stessa di Michael Cimmino, di regista ingovernabile e troppo a rischio per essere prodotto. Quattro anni fa, nel film a episodi Tokyo, il suo s’intitolava Merde e raccontava di una creatura delle fogne, Monsieur Merde, appunto, che seminava la capitale giapponese di bombe. Rappresentava la paura e la regressione dopo l’11 settembre, a detta del regista, ma molti vi hanno letto il suo giudizio esasperato contro il mondo che lo circonda.
Carax ha tutto per piacere a una certa cinefilia, francese e no, in cerca sempre del genio e dell’estremo, della sperimentazione e del cinema come arte e non industria, commercio, intrattenimento. L’eccentricità del personaggio fa il resto: un esordio da critico cinematografico di talento e un primo film, bello, Boy Meets Girl, a soli 24 anni, nell’84, che introduce il videoclip sul grande schermo, un cognome che non è il suo (Dupont, più banalmente, fa all’anagrafe), ma l’anagramma fra Oscar (simbolico) e Alex, il secondo nome.
Se a tutto ciò si aggiunge il suicidio della sua compagna, Katerine Golubeva, poco prima dell’inizio delle riprese, e la tendenza di Carax a rispondere poco, se non niente, nelle conferenze stampa (quella sul film in concorso è stata, sotto questo aspetto, sublime e insieme surreale), si avrà il quadro completo. Un artista maledetto, insomma, vittima dei produttori(Holy Motors è in realtà un film a dispetto, girato perché gli altri progetti si bloccavano per mancanza di finanziatori), e che andrebbe premiato nonostante il Festival di Cannes, prostituitosi alle Majors, non meriti di averlo in gara. Se poi Carax manda il suo attore-feticcio, Denis Levant, a ritirare il premio, l’apoteosi è completa.
Holy Motors è come un’opera d’arte contemporanea, dove le interpretazioni si moltiplicano in mancanza di senso. Ridotto all’osso, c’è un uomo, Monsieur Oscar, che ha più vite, come un killer a pagamento, del resto una delle sue molte esistenze, che altrettante incrocia e elimina, assassino e vittima allo stesso tempo. L’azione è il suo motore, la bellezza del gesto il suo scopo. Pur essendo uno che legge, Carax non è uno che scrive: non c’è sceneggiatura nei suoi film, ma solo immagini, coincidenze, citazioni e sentimento. In sostanza, l’esistenza non ha un’identità, se non nel movimento, nella fuga e nella ricerca.
Il risultato è un film mitologico, nel senso della costruzione di miti, e insieme fantastico, nel suo figurarsi altri mondi, esseri delle tenebre e esseri della luce, strumenti meccanici propri di un’epoca in cui tutti gli assoluti sono morti e si è ridotti a sacralizzare la materia, e insieme schiavi di un mondo sempre più virtuale.

Denis Levant, l’alter ego cinematografico di Carax (stessa altezza, stessa voce, stessa aria fra il dimesso e lo scontroso), interpreta nel film dieci ruoli, mimo, acrobata, danzatore, un corpo e un volto scolpiti, Kylie Minogue (nel film c’è anche una sua canzone), Eva Mendes e Edith Jacob vi aggiungono un tocco di grazia e di mistero femminile. Se volete andarlo a vedere, è a vostro rischio e pericolo. Però potrebbe anche piacervi.
SS

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