Cultura e Spettacoli

Gómez Dávila, il "diritto" di pensarla a rovescio

Esce in Italia il saggio «De Iure» del pensatore reazionario colombiano, che inaugura una collana diretta da Cacciari

Gómez Dávila, il "diritto" di pensarla a rovescio

Scritto nel 1970, e pubblicato soltanto 18 anni dopo, anche il De Iure, un po' come tutta la produzione gomezdaviliana (vuoi per il tatto, il pudore e una certa riservatezza dell'autore) ha visto la luce con tanta fatica, grazie alle pressioni di amici e familiari. Se pensiamo a Nicolás Gómez Dávila (Bogotà, 1913 Bogotà, 1994), infatti, non possiamo pensare ad un filosofo più lontano da Socrate. Al proselitismo filosofico del greco, all'odioso pedagogismo dialettico e finto tonto del «tafano» ateniese, il colombiano ha sempre preferito le «poche parole». Poche parole dietro cui è «difficile nascondersi, come tra pochi alberi». Poche parole che impediscono la costruzione di un sistema, e che non pretendono di dire la verità, ma soltanto (se Dio vuole) di intersecarla nel tempo fulmineo di un aforisma.

Ecco però che le cose cambiano quando Gómez Dávila si vede costretto ad affrontare il tema del Diritto. È il caso appunto del De Iure, un saggio breve, tradotto e curato per la prima volta da Luigi Garofalo per la Nave di Teseo (pagg. 272, euro 19), volume inaugurale della collana «Krisis» diretta da Massimo Cacciari e Natalino Irti. Nonostante la brevità del saggio, e la forse smisurata (ma impeccabile) introduzione del curatore, che rende l'operazione commercialmente sfrontata, fa riflettere la scelta di un simile autore, orgogliosamente reazionario, per avviare una collana che si propone di sondare la «crisi» dei vecchi istituti del Diritto e della Filosofia. Ma la sottile intelligenza del colombiano, l'intensità della sua scrittura e l'eloquenza spiazzante delle sue glosse, non possono lasciare indifferenti né a sinistra né a destra.

Conservatore di fronte ai progressisti, reazionario con i conservatori, Gómez Dávila elude qualsiasi etichetta che non sia quella di uno spirito in rivolta nei confronti di un presente che distrugge più quando crea che quando distrugge. Rispetto agli Escolios (che in Italia GOG Edizioni sta pubblicando, in cinque volumi), la sua opera monumentale, una raccolta «aperta» di oltre 10mila aforismi che trattano dei temi più disparati, il De Iure è un testo compiuto e definitivo, dove il filosofo indossa i panni del giurista, in questo caso con «competenza ed eleganza», come sostiene Garofalo, per fare chiarezza sullo stato del Diritto, strattonato, secondo Gómez Dávila, dalle idee giusnaturaliste. Il colombiano asserisce infatti che la natura è priva di potenzialità sul piano delle regole giuridiche, e che «né nella natura del mondo, né nella natura dell'uomo esistono tracce di norme». Queste derivano infatti dalle «intromissioni della volontà» umana. Tirare in ballo una supposta «natura», trasfigurata secondo le esigenze del momento da parte di chi detiene il potere giuridico o chi vuole conquistarlo, è un atto ideologico e arbitrario. Così come l'idea di Giustizia è per il colombiano un'idea fumosa, di cui si è fatto spesso un uso improprio: «Etichettando Giustizia il pacco chiuso, è stato facile, nei secoli, introdurre qualsiasi merce di contrabbando». Demistificazione della sovrastruttura ideologica che ci fa pensare a Marx, se non fosse che per Gómez Dávila anche la stessa «giustizia sociale» è solo un furto perpetrato da una comunità intera invece che da un singolo individuo. Il giuridico è quindi per Gómez Dávila - che intende in questo senso fare chiarezza sulle origini di questo concetto - la capacità che hanno gli individui di creare e modificare un sistema condiviso di norme, e il diritto è la procedura che nasce per garantire il rispetto di questo sistema nato da un accordo, quindi da una consuetudine. Perciò il diritto è sempre diritto positivo e consuetudinario, perché la regola nasce sempre da un accordo. L'accordo, il contratto sono alla base di qualsiasi società, e danno vita al diritto, che non è uno «statuto atemporale di norme, né coacervo capriccioso di comandi impersonali, ma accumulazione storica nel tempo di accordi convenuti tra soggetti che si riconoscono reciprocamente come tali». In questo senso allora visto che lo Stato «trova e non inventa il diritto», lo estrapola dal capitale giuridico di una società al variare degli accordi tra i soggetti (così come il vocabolario non inventa la lingua ma la trova tra i parlanti) il problema risulta essere la democrazia, poiché «obbedire alla legge che dipende dalla volontà maggioritaria è obbedire al capriccio».

Sempre pungente e caustico, anche in quest'opera dove viene abbandonato l'aforisma, il pennello concettuale prediletto da Don Colacho, Gómez Dávila non perde la sua raffinatezza e ci accompagna discretamente nella stanza dei suoi dubbi, una stanza dove non vi sono certezze ma prima di tutto domande, che arredano con grazia le pareti, come quadri senza tempo, e dove i problemi metafisici, parafrasando il colombiano, non ci assillano più per essere risolti, ma per essere vissuti.

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