Cento anni di Federico Fellini - a proposito, «Auguri» - e cento possibili modi di raccontarli. Saggi, nuove biografie e vecchie interviste, mostre, cataloghi, convegni, rassegne cinematografiche, francobolli (ieri il ministero dello Sviluppo Economico ne ha emesso uno appartenente alla serie «Le Eccellenze italiane dello spettacolo», valore 1,10 euro), speciali televisivi... E ricordi, quanti ricordi. Amarcord. Ognuno ha il suo. Chi conobbe bene il Maestro, chi lo incontrò appena, chi ci lavorò, chi ci litigò.
Fellini visse 73 anni (1920-93), ne avrebbe compiuti cento ieri, ma l'immaginario che ha creato, diventato parte della nostra quotidianità, non ha tempo. È strano. La sua opera non è così vista ormai: Amarcord - per esempio - non si vede in prime time dal 2001. Eppure Fellini è uno degli autori italiani in assoluto più amati e famosi all'estero. La dolce vita non è solo un film: è il cinema italiano nel mondo. Di più: è il modo italiano di vivere, per il mondo. E «Paparazzo» non è soltanto uno dei suoi neologismi più fortunati, ma il nome di centinaia di negozi, ristoranti e attività varie, ovunque. «Marcello, come here!». L'Italia di Fellini è un marchio turistico - «Stranieri, venite qui!» - e Fellini è l'italiano perfetto. Tutta l'italianità, nel bene e nel male, sta dentro Fellini e il suo cinema. Così come Fellini e il suo cinema hanno dentro di sé i vizi e il genio del carattere italiano.
Per l'anniversario felliniano sono usciti e continueranno ad arrivare molti libri. Ma, in qualche modo, nell'«alfabeto» compilato dal critico cinematografico Oscar Iarussi dal titolo Amarcord Fellini (il Mulino), fra curiosità, aneddoti e riflessioni che incrociano arte e vita, c'è tutto: dalla «A» di Amarcord, appunto, alla «Z» di Zampanò, passando per la «B» di Borgo (cioè Rimini, cioè la spiaggia degli stranieri d'Italia), la «C» di Clown (il senso italiano per la comicità...), la «D» di Dolce vita, la «E» di Ekberg (Anita, la straniera più italiana di tutte), la «F» di Flaiano (il più grande antitaliano d'Italia)... e c'è soprattutto l'idea (ma non è detto che l'autore del dizionarietto federiciano sia d'accordo: è una lettura nostra) che Fellini sia persino più che un «antropologo del '900», «un testimone sul campo delle metamorfosi sociali» del Paese. Ma che lui stesso - il suo corpus e il suo spirito - sia addirittura l'autobiografia di un popolo. Il nostro. Ecco perché F.F., Federico Fellini (i francesi hanno B.B.), piace tanto agli stranieri e inquieta molto gli italiani, ai quali guardare i suoi film fa l'impressione di rivedersi su un grande specchio.
Fellini è pigro e sognatore, mammone e puttaniere, fedifrago e attaccatissimo alla famiglia. Visionario inguaribile e feroce realista, provinciale e hollywoodiano. E poi moderatamente cinico, disincantato, nostalgico, anche se non sa neppure lui bene di cosa...
Fellini è il prototipo dell'italiano sempre circondato da tanta, troppa gente: da compagni di giovinezza e di avventure, Vitelloni e colleghi, fan, adulatori, falsi amici - e ancora: vagabondi, saltimbanchi, matti e lunatici - tutte persone divertentissime, ma che ti fanno sentire perso in una solitudine indefinibile. Ecco, forse, perché adoriamo feste, marcette, circhi, trenini e girotondi. Cose bellissime e tristi.
Le sue donne - senza le quali il «Pianeta Fellinia», per usare una definizione di Gian Piero Brunetta, perderebbe una «fonte energetica» fondamentale - sono le nostre donne, burrose (come Gradisca, il cui ruolo in un primo momento doveva essere di Edwige Fenech, poi Fellini ci ripensò: «Scusami, mai sei troppo magra, ti dispiace se dò la parte a un'altra?», le chiese), donne materne e generose, donne da amare e dalle quali fuggire, da inseguire e da temere.
Il suo borgo - Rimini, el bôrg, che doveva essere il titolo di Amarcord, poi cambiato - è uno dei mille campanili d'Italia, la provincia da cui scappi per poi tornarci, anche solo con il ricordo. E se pure il regista fu di casa a Hollywood, vincendo cinque Oscar, «la sua vena aurea non potrebbe essere più italiana e provinciale, più estranea al cuore dell'Impero», come ammette anche Iarussi. E del resto quando Vittorio De Sica vide La dolce vita, sbottò: «È una cafonata, il sogno di un provinciale».
Fellini è come Marcello, il suo Marcellino, e viceversa. Cioè come tutti noi vorremmo sentirci, e un po' ci illudiamo di essere, da italiani: scanzonati, scettici, autoironici, seduttori (Il Casanova di Federico Fellini, 1976), ma alla fine così pigri, rinunciatari, in balia del colpo di genio, che vaghiamo tra feste immobili e decadenti. È la grande bellezza del suo cinema.
Fellini è così autentico, come l'Italia e gli italiani, perché l'arte è sempre più vera della realtà. Artifici, prospettive, barocchismi, sogni, illusioni e inganni: con questa roba ci abbiamo a che fare da secoli... Nei film di Fellini la quasi totalità delle scene di mare e della riviera adriatica è girata sul Tirreno o a Cinecittà. L'unica cosa vera del «Rex» è il fumo dei fumaioli. E la strada più famosa del cinema italiano, via Veneto, fu ricostruita in studio. Come sanno illuderti e illudersi gli italiani, nessuno. «Non è necessario che le cose mostrate siano autentiche. In genere è meglio che non lo siano. Ciò ce dev'essere autentico è l'emozione nel vedere e nell'esprimere» amava dire il «dottor» Fellini, che non prese mai la laurea.
Fellini e il suo cinema, a partire dagli anni Cinquanta, accompagnano il passaggio - scandito dalle musiche di Nino Rota - dell'Italia povera e contadina, cattolica e comunista, all'Italia modana e del boom, laica e benestante. Dall'Italietta fascista al fascino del cinema. Dux et Rex.
E anche in questo Fellini è l'italiano perfetto: da ragazzo pubblica un po' di cose su un settimanale fascista di Firenze e disegna vignette satiriche per il Marc'Aurelio, poi però riesce a scampare la tragedia della guerra, un po' per questioni di studio un po' di salute, e alla fine le delusioni del Ventennio, complice la magia del cinema, diventano speranze antifasciste. Anche se tutto sommato a Fellini - come agli italiani - la politica non interessa così tanto. L'importante è lo spettacolo, che da noi di solito coincide con la vita stessa. Naturalmente restandone sempre «più grande».
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