Cosa saresti disposto a fare per realizzare i tuoi sogni? Per ottenere ciò che desideri? Su questa domanda provocatoria si costruisce il nuovo film di Paolo Genovese, a dir poco atteso visto il successo del suo precedente «Perfetti sconosciuti», autentico capolavoro della commedia all'italiana. Un'idea non originale visto che la pellicola prende più che uno spunto dalla serie televisiva Booth at the End, con tutte le difficoltà di rappresentare su grande schermo ciò che è nato per quello piccolo. Con un'ulteriore limite: tutta la storia avviene all'interno di una tavola calda, precisamente intorno al tavolino dove siede, anche quando il locale è chiuso al pubblico, Valerio Mastandrea. Chi sia non è dato saperlo, se non che, rivolgendosi a lui, si possono realizzare desideri di ogni tipo. Ma pagando un prezzo elevato. Lui ascolta il cliente, segna tutto quello che ha di dire su una agenda nera, la chiude, lo guarda e gli dice «si può fare», ma con contropartite disumane. Così, il poliziotto Giallini, per recuperare un bottino, dovrà picchiare a sangue un uomo, la suora Rohrwacher, per ritrovare Dio, dovrà rimanere incinta, il cieco Borghi, per riacquistare la vista, dovrà violentare una donna, il padre Marchioni, per salvare il figlio morente, dovrà uccidere una bimba, e così via. Nove persone si alternano per 105 lunghi minuti a quel tavolo, aggiornando gli sviluppi delle loro storie, intervallate dalla cameriera Ferilli che interagisce con il misterioso cliente. E' chiaro l'intento di provocare lo spettatore, obbligarlo a riflettere sul tema di fondo. Rispetto a Perfetti sconosciuti, però, dopo l'iniziale curiosità, si finisce per non appassionarsi mai, fino in fondo, ai vari personaggi e alle loro vicende troppo «costruite» a tavolino per stupire come avrebbero dovuto, ottenendo l'effetto contrario (per non dire il sorriso, come nell'assurdo caso della pensionata che costruisce, grazie a Internet, una bomba).
Insomma, un film che sembra esaurirsi dopo trenta minuti, come un episodio televisivo. Devastante, poi, non aver cercato di movimentare la didascalica sceneggiatura, portandola al di fuori di quel locale. Genovese resta, nel suo genere, il nostro miglior regista, ma questa volta ha sbagliato soggetto.
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