Cultura e Spettacoli

Il Giappone e il dovere di essere liberi

Una guida intellettuale, filosofica e sociale per capire un popolo lontanissimo da noi

Il Giappone e il dovere di essere liberi

Alla fine della lettura, persino il gaijin più gaijin, lo «straniero», cioè, che non ha mai messo piede da quelle parti, capisce che, per tentare di entrare nella testa del Giappone, deve cominciare ficcandosi nella sua, di testa, le prime due parole chiave: honne e tatemae. «Honne rappresenta l'essere più profondo, quello privato, i sentimenti reali di una persona, ciò che essa prova davvero. Il tatemae al contrario è la facciata, il lato di sé che si mostra agli altri, la propria posizione rispetto al contesto generale». Ed è significativo che queste parole, questi concetti, queste leggi che regolano la convivenza, saltino fuori a proposito di un duello amoroso, in cui l'uomo vuole ciò che la donna non vuole (forse non ancora) concedergli. Le altre due parole chiave, che anche per i giapponesi, come per i non giapponesi, valgono in amore come in tutto il resto, le possiamo scrivere tranquillamente anche in italiano: libertà e regole.

Ma il punto è che noi, cioè noi occidentali e soprattutto noi italiani, siamo abituati a mettere le regole nella libertà, mentre loro, i giapponesi, fanno l'inverso, mettono la libertà nelle regole. Per noi le regole servono a limitare la libertà, per loro sono proprio le regole a creare la libertà. Ecco perché a noi la libertà non basta mai, mentre loro si fanno bastare quel tanto di libertà che può entrare nella griglia delle regole.

La frase che abbiamo citato sopra è presa da un libro che ha doppia valenza, di memoir e di saggio, e ha un titolo allo stesso tempo ambizioso e rispettoso: Svelare il Giappone (in uscita il 3 giugno da Giunti, pagg. 396, euro 19). Infatti il suo autore, Mario Vattani, da italiano sa perfettamente che un leggerissimo «velo di Maya» come quello di cui parla un filosofo molto occidentale ma anche molto orientale, Arthur Schopenhauer, nasconde agli occhi dei gaijin il vero volto di quel popolo. Ma sa anche, e le pagine finali del suo lavoro lo dimostrano quasi in forma di sentenza inappellabile, che quel velo non potrà mai essere completamente sollevato, che il Giappone ai non giapponesi non apparirà mai nudo. E se lo scrive Vattani, che in Giappone ha vissuto a lungo imparando molto bene la lingua, vi ha ricoperto importanti incarichi diplomatici fino a diventare console generale, vi ha trovato persino l'amore di una moglie giapponese con la quale ha avuto due figli...

«Accenno, pausa, esecuzione». Ecco altre tre parole fondamentali, che in questo caso introducono, dopo il pensiero, l'azione del giapponese. Ogni gesto deve rispettare questi tre momenti, come se la vita fosse un'infinita concatenazione di cerimonie, grandi e piccole. Cedere all'impulso è considerato sempre volgare, e persino le perversioni sessuali debbono obbedire a una ritualità, a delle regole, appunto, che in qualche modo le mandano assolte, purché rispettino i ristretti limiti di spazio e di tempo previsti. Recita un haiku: «Non per rispetto tengo basso lo sguardo, ma perché aspetto»...

Insomma, mentre per noi ciò che si deve fare diventa, in pratica, un «si può fare», perché in noi la libertà vince sempre sulle regole e sulle leggi, in Giappone ciò che si può fare, lo si deve fare. «Per dire devo fare quella cosa - spiega Vattani - si dichiarerà non posso non fare quella cosa, aggiungendovi però come seguito altrimenti ciò che deve verificarsi non si verificherà».

Al gaijin da cui siamo partiti, vale a dire all'autore di questo articolo, Svelare il Giappone serve per approfondire un ipotetico corso monografico che fortunatamente non prevede l'atto finale dell'esame. In bibliografia, durante molti anni, ha messo, piuttosto alla rinfusa (del resto, è italiano...), Basho e Kawabata, Akutagawa e Mishima, Oe e Soseki, Tanizaki e Abe Kobo, i gialli di Ranpo Edogawa, Matsumoto Seicho e Kirino Natsuo, lo smooth jazz/new Age nipponizzato della pianista Matsui Keiko, l'arte di Hokusai, Hiroshige e Utamaro, e ovviamente il fascino impermanente e fluttuante delle donne di laggiù, di passaggio per queste lande. Ma a far compagnia al libro di Vattani sono soprattutto quello, recentissimo, di Christopher Harding sul Sol Levante moderno, Giappone. Storie di una nazione alla ricerca di se stessa. Dal 1850 a oggi (Hoepli) e quelli, vecchi di oltre un secolo ma recentemente proposti (da O barra O), del francese Pierre Loti: Kiku-san. La moglie giapponese e Giapponeserie d'autunno. Perché in Giappone, ed ecco un'altra differenza sostanziale fra noi e loro, parafrasando von Clausewitz la Modernità è la continuazione della Tradizione con altri mezzi, laddove noi della nostra Tradizione più che altro ci vergogniamo...

Ne deriva che il Giappone di oggi efficacemente descritto da Vattani è chiamato, in ogni ambito, a un colossale sforzo per conciliare i valori millenari o quantomeno plurisecolari della sua cultura con gli strumenti, in quasi quotidiano e costante mutamento, della tecnologia. Cambiamento nell'immutabilità e immutabilità nel cambiamento. Dall'urbanistica al lavoro, dal tempo libero alla scuola, dai rapporti di coppia alla tutela della natura, tutto obbedisce a tre verbi: sintetizzare, sopportare, sostituire... Diceva il samurai Musashi Miyamoto: «Tu ti addentrerai nelle montagne, e quando infine ne uscirai, sarai circondato dalle montagne».

Lasciamo il Giappone e Vattani all'aeroporto, per il ritorno in patria. «Come in un aldilà buddista ultramoderno, antichi demoni giapponesi camuffati da negozianti, da addetti alla sicurezza, ci spingono avanti verso l'uscita, si rivolgono a noi trattandoci per come ci si aspetta che noi siamo, ci privano della scelta di essere diversi, ci privano di ciò che ci aveva finora distinto.

Attraversiamo così, insieme agli altri mortali dai passi troppo pesanti e le voci troppo forti, i livelli successivi di purificazione, la spoliazione dall'incanto dei sensi, la privazione dei ricordi, la negazione dell'io, finché non ci troviamo ineluttabilmente in cabina, stretti sul sedile da una cintura di sicurezza».

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