da Cannes
Essere Don Chisciotte ha in sé qualcosa di nobilmente tragico e di tragicamente ridicolo, come ben sapeva il suo creatore, Miguel de Cervantes. Pensare, da regista, di portare quel personaggio sullo schermo rischia di aggiungervi un elemento autobiografico, nel momento in cui si vuole farne un'illustrazione del complesso rapporto fra arte e industria, creatività e business, pieno di mulini a vento metaforici che ogni due per tre mandano all'aria il cavaliere-regista dalla trista figura. «Cervantes mi ha scelto ha detto Terry Gilliam in un'intervista - Sono una sua vittima, una vittima di quest'uomo del Seicento. Francamente penso che mi abbia perseguitato per tutti questi anni».
Film di una vita, L'uomo che uccise Don Chisciotte sbarca finalmente fuori concorso al Festival, lo chiuderà, ma avrebbe anche potuto intitolarsi Il Don Chisciotte che (quasi) uccise l'uomo, appunto Gilliam stesso. Vent'anni di traversie, un ictus che ha messo a rischio la sua presenza a Cannes. E non c'è dubbio, nel vederlo, due ore e mezzo sontuose per suoni, colori, paesaggi, che nell'arco di tempo intercorso, sempre più il film è divenuto una questione privata, un'idea di cinema, un'idea della vita, il tentativo di far coincidere i propri sogni con la realtà.
Interpretato da Adam Driver (Sancho) e con Jonathan Pryce nella parte del cavaliere della Mancha, L'uomo che uccise Don Chisciotte racconta di Toby, creativo pubblicitario cinico e disincantato che si ritrova in Spagna per girare qualcosa che abbia attinenza con il capolavoro di Cervantes. Anni prima, quando era un idealista che studiava cinema e sognava di fare film d'autore, il soggetto che aveva scelto per la sua tesi era stato proprio Don Chisciotte e in un paesino della Mancia aveva trovato i suoi soggetti: un anziano calzolaio per il ruolo principale, un avvinazzato contadino per quello del suo scudiero, la giovane figlia del titolare di una posada per interpretare Angelica... Adesso che la sua creatività è in panne, una vecchia cassetta di quel film sperimentale di allora lo riporta, in cerca di ispirazione, sui luoghi di un tempo. Scopre così che il vecchio calzolaio è impazzito e si crede veramente Don Chisciotte, Sancho è morto di troppo vino, Angelica si è illusa di poter essere un'attrice ed è diventata una mantenuta... Nel cercare di riportare il primo alla ragione e di ritrovare l'idealismo di un tempo, Toby assumerà il ruolo di Sancho, in una cavalcata surreale dove il confine fra vero e falso, passato e presente, messa in scena e vita reale diventa indistinguibile. Alla fine sarà proprio Toby a divenire Don Chisciotte, l'eternità di una figura sempre più necessaria in un'epoca divenuta arida per le nobili imprese, per l'amore e per la dignità dell'essere umano.
Autore di Brazil e di L'esercito delle dodici scimmie, Gilliam costruisce un film nel film che di tanto in tanto strizza l'occhio allo spettatore cinefilo, ma soprattutto ha a che fare con le ossessioni e la testardaggine che ne hanno punteggiato la realizzazione. «Ho cominciato a pensarci negli anni Novanta. Nel Duemila ho fatto il primo ciak e tutto è andato subito storto». Jean Rochefort, il Don Chisciotte d'allora, si ammala di ernia del disco e abbandona le riprese, una vicina base aerea impedisce la presa del sonoro, un uragano apocalittico devasta il set... Da quel tentativo verrà fuori Lost in La Mancha (2002). Nei quindici anni successivi il progetto riappare per poi riscomparire: «Più tutti mi dicevano di lasciar perdere, più mi ci attaccavo».
Quando, un anno fa, la produzione va in porto, è il produttore a ritirarsi a lavorazione ormai avanzata, quello stesso produttore, Paulo Branco, che fino all'altro ieri ha cercato di impedirne la presenza a Cannes. Più mulini a vento di così, più donchisciottesco di così, c'è solo Cervantes.
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