Quando il 2 agosto 1945 morì Pietro Mascagni, il popolo di Roma partecipò in massa al funerale dell'amato compositore di Cavalleria Rusticana. Salvo il gonfalone della natia Livorno (inviato dopo aspra battaglia in consiglio comunale), istituzioni assenti, per cautela e non solo. Di questa dannazione della memoria si rammaricò molto Umberto Giordano, penultimo sopravvissuto dei cinque grandi operisti della Giovane Scuola Italiana, il quale morirà poco più di tre anni dopo Mascagni. Sono passati solo tre anni e ai funerali di Giordano, il 12 dicembre '48, si mosse tutta Milano: gente comune e rappresentanti politici, concordi nel rendere l'ultimo omaggio all'operista di Andrea Chénier e Fedora, i due titoli che ancora resistevano nei cartelloni di tutto il mondo. Eppure Giordano agli occhi dei «moralizzatori» della nuova Repubblica poteva essere considerato «compromesso», essendo stato nominato da Mussolini nel '29 all'ambitissima Accademia d'Italia, cui l'Eccellenza Giordano partecipò in feluca e spadino, ed avendo poi scritto nel '32, l'Inno del Decennale.
A differenza però di Mascagni che visse sempre più ritirato in un appartamento dell'Albergo Plaza a via del Corso a Roma, giocando a scopone, fumando il toscano e dispensando le celebri battute, Giordano non rimase mai un isolato né come musicista, né come uomo. Da Chénier alla sua ultima opera Il Re, affinò sempre più la sua tecnica di orchestratore, mantenendosi aggiornato presso Casa Sonzogno sulle novità di cui era ammiratore (lo Stravinskij di Petruska, Ravel), essendo fedele a un tipo di teatro, che lui stesso definì «lirismo delle umane passioni». Dopo aver risentito il capolavoro che adorava, Carmen di Bizet, scrisse di essere sempre più convinto che «l'opera lirica non ha altra ragione di esistere che per fare della musica bella, sentimentale, passionale. Il libretto, le situazioni, le parole non debbono servire ad altro che a ispirare musica. La musica fine a se stessa è una enorme bestialità». Le affermazioni clamorose delle prime tre opere sono emblematiche di questo percorso umano ed estetico. Dopo Chénier nel 1896, Fedora nel '98 confermò la tenuta di quel teatro e la negletta Siberia (1903), che tanto piacque a compositori francesi non certo facili come Fauré e Saint-Saëns, e che meriterebbe attenzione, non solo per la superba effusione di Stephana, Qual vergogna tu porti. In tutte e tre sempre l'orma del suo melos generoso, largo, spaziato, forte e incisivo, adorno di quella nobiltà antica che richiamava il lignaggio della scuola napoletana a cui apparteneva. Sono le celebri melodie: l'Improvviso e i versi di Chénier, Un dì all'azzurro spazio e Come un bel dì di maggio, l'impennata di Gérard, La coscienza dei cuor, la purezza di Amor ti vieta di Loris, la pienezza di O grandi occhi lucenti e Dio di giustizia di Fedora.
Il suo carattere meridionale, cordiale, era lontano dalla timidezza diffidente di Puccini, dalla riservatezza umbratile di Francesco Cilèa e dalla salacità labronica del suo vecchio amico Pietro. Quando Mascagni incontrò Giordano sul palcoscenico del Reale dell'Opera gli chiese cosa ci facesse. «Dirigo il Re», fu la risposta. E Mascagni: «Umberto non dire sciocchezze! Il Re lo dirige Mussolini!».
«La sua prestanza fisica sembrava l'immagine tattile del suo equilibrio interiore, della sua franchezza d'animo, della sua espansività e della sua fondamentale gentilezza», come ha scritto un critico musicale che lo conosceva bene, Giulio Confalonieri. Nel momento del commiato tutti ricordarono l'uomo e la sua musica. I farraginosi Diari che coprono gli ultimi venticinque anni di vita - sono lo specchio dell'intensa vita mondana e culturale di Giordano, amante della cucina e del buon vivere, che godeva della stima dei maggiori artisti del suo tempo, a partire da Arturo Toscanini. Giordano fu tra i pochi intimi sempre ammessi a casa Toscanini in via Durini, non dimenticando che Toscanini tenne a battesimo, con grande successo, la squisita Madame Sans-Gêne (libretto di Renato Simoni da Sardou) nel '15 al Metropolitan, protagonista Geraldine Farrar, e alla Scala la non meno attesa Cena delle beffe (dalla famosa pièce di Sem Benelli) nel '24 e poi con il Re nel '29. Per vent'anni, Giordano non scrisse più nulla. Dopo la guerra il mondo era totalmente cambiato.
Ma lui fu sempre presente come lo ricordavano con affetto i milanesi e Giulio Confalonieri che scrisse: «Alla Scala, ai concerti, alle più svariate manifestazioni della cultura, aveva l'aria di stare a vedere come sarebbe finita; aveva l'aria di ascoltare, per discernere nel gran frastuono, le voci essenziali».- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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