Daniele Del Giudice è stato uno dei più grandi scrittori italiani dell'ultimo Novecento. I suoi libri, quando uscirono, tra gli anni Ottanta e Novanta, furono un evento letterario. I titoli: Lo stadio di Wimbledon (1983), scoperto da Italo Calvino, Atlante occidentale (1985), le raccolte di racconti Staccando l'ombra da terra (1994) - il dialogo tra i due piloti nell'hangar è tra i più belli in assoluto del secondo Novecento - e il fantastico Mania (1997).
Abbiamo scritto «è stato» perché Del Giudice, colpito da una violenta forma di Alzheimer, da anni vive ignoto a se stesso e dimenticato da troppi in un centro di cura alla Giudecca, nella sua Venezia (lui che nacque a Roma).
Del Giudice - scrittore colto, raffinato, «esatto», che ha lavorato tantissimo sulla lingua della narrazione - ha 70 anni, e se ormai non scrive più da molto tempo, durante la sua vita attiva lo ha fatto sempre. E molte pagine sono rimaste inedite. Oggi, in occasione del Premio internazionale Amos per la Cultura, assegnato In absentia proprio a Daniele Del Giudice, la casa editrice organizzatrice, la Amos di Michele Toniolo, pubblica una plaquette, Parole (un'edizione fuori commercio, in sole 200 copie numerate), che raccoglie tre suoi brevi testi, mai apparsi prima: «Io» (sull'uso dei pronomi nella narrativa), «Novità» (sul culto contemporaneo per tutto ciò che è nuovo) e «Limite». Risalgono al 1995, ma come tutte le Parole di un grande scrittore, sono sempre attuali. «Limite», ad esempio. È una riflessione - alta e insieme pop, e viceversa - che partendo dal calembour di Totò, «Ogni limite ha una pazienza!», ci ricorda che la nostra civiltà, dal punto di vista politico, economico, ecologico, ha progressivamente perso il senso del «limite», un qualcosa che invece è più che mai necessario per sopravvivere (soprattutto ora, in un tempo sospeso sull'abisso). «Siamo passati da una cultura che riconosceva il limite in ogni campo e lo combatteva - limiti di democrazia, limiti di povertà, limiti temporali, limiti di risorse vitali - al sentimento dell'illimitato, sentimento che nessuno di noi ammetterebbe, naturalmente, ma che ci fa considerare tutto ciò che ci circonda come acquisito per sempre, e anzi aumentabile per sempre e ad infinitum».
Ma l'idea dell'illimitato declinato nella vita quotidiana - nota Del Giudice - è un'idea inerte che «non ci fa muovere nemmeno un passo»: è bene non predominare sul limite, ma attestarsi sulla sua soglia. Che per uno scrittore immobile da tempo, resta una grande lezione.
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