Cultura e Spettacoli

Gran ritmo e happy end Leconte non mantiene le «Promesse» di Zweig

da Venezia

Prendi un melodramma, trattalo male, fallo diventare banale... Certo l'impresa di Patrice Leconte, il regista de Il marito della parrucchiera, non era delle più facili. Prendere il romanzo breve di Stefan Zweig, Journey into the Past, trovato tra le sue carte dopo il suicidio con la seconda moglie nel 1942, con una scrittura fatta quasi solo di atmosfere, silenzi, attese e di decine di lettere tra due amanti e portarlo al cinema. Titolo Une promesse, presentato fuori concorso alla Mostra di Venezia e appena acquistato da Officine Ubu per la distribuzione in Italia. La storia, un melodramma gelido, non poteva certo non attirare il regista che spesso ha indagato queste dinamiche: «Un amico sceneggiatore mi aveva consigliato di leggerlo e ho subito capito che potevo fare quello che mi piace al cinema. Ossia raccontare il desiderio, i sentimenti, le emozioni, i tempi di una storia magnifica». Che poi è quella di un giovane laureato (Richard Madden) di umili origini che viene assunto in un'acciaieria. È talmente bravo che il padrone (Alan Rickman), anziano e un po' acciaccato, lo sceglie come segretario personale. Lavorando spesso nella ricca dimora conosce la giovane moglie del capo (la bellissima Rebecca Hall).
Tra i due nasce immediatamente un'intesa quasi indotta dal marito di lei che però poi si ingelosisce e spedisce il giovane a lavorare per due anni in Messico. Gli amanti si promettono di coronare il loro sogno di amore «non qui, non ora» ma al ritorno dal lungo viaggio. Che diventa quasi uno nel tempo con la Prima guerra mondiale a creare una frattura tra i due continenti e, naturalmente, fra i due amanti che si rivedranno solo quasi dieci anni dopo. La grande Storia avrà modificato il corso di quella piccola?
Il libro di Zweig ha una sua risposta precisa in un'analisi spietata dello scorrere del tempo che compie crimini terribili. Perché uccide il meglio che c'è in noi nello stesso momento in cui ci lascia ancora vivi. Leconte opta invece per l'happy end motivandolo così: «Zweig era uno scrittore molto pessimista, nero e scuro per il quale il desiderio amoroso non resiste al tempo. Ma io non potevo finire così, dovevo lasciare uno spiraglio di cielo aperto. Altrimenti ci saremmo tutti buttati sotto un autobus all'uscita della sala». E in effetti a 61 anni lo scrittore austriaco con cittadinanza inglese, in Brasile insieme alla moglie, ha lasciato in anticipo il mondo con una dose eccessiva di barbiturici.
Ma l'operazione di Leconte, di cambiamento e in un certo senso di modernizzazione linguistica di un'opera in costume, passa anche attraverso l'uso un po' troppo eccessivo di improvvise zoomate, con una macchina da presa sempre in movimento che sembra usare più gli stilemi di una serie tv poliziesca piuttosto che essere specchio del lento e implacabile scorrere del tempo. «Ma non è perché la storia si svolge nel 1912 - ribatte il regista che ha voluto girare il film in inglese per renderlo più universale - che bisogna girare come allora.

Le mie saranno libertà non del tutto classiche ma riflettono le cose molto moderne e attuali che la storia ci racconta».

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