Ha vinto il pugno chiuso Ma il cuore della Mostra era tra fede e nichilismo

nostro inviato a Venezia

Rischia di essere quel pugno chiuso di Kim Ki-duk l'immagine più forte della controversa Mostra di Venezia appena conclusa (nella foto). Il regista coreano, che vive come un eremita in una capanna, aveva appena ricevuto il Leone d'Oro per il suo Pietà quando ha sentito il bisogno di fare outing politico. Poco dopo avrebbe intonato Arirang, delicata cantilena popolare, commuovendo l'ingessato pubblico del Palazzo del cinema. E soprattutto raddoppiando l'effetto mondi lontani. Lontano il mondo da cui arrivava quella canzoncina. Lontano nel passato l'universo del pugno chiuso. È vero che, insieme alla vendetta e al perdono, il film sul demone denaro è «una denuncia del capitalismo estremo». Ma basta ricordare la critica all'utopia sessantottina contenuta in Aprés mai di Olivier Assayas per comprendere che il saluto comunista coreano è solo un fatto personale. Nella Seul protagonista di un convulso sviluppo industriale sopravvive ancora qualche comunista da pugno chiuso. Fine.
La linea editoriale della Mostra e le scelte della giuria hanno camminato lontano dall'ideologia. Spifferi dalla giuria, infatti, fanno intendere che la vittoria di Kim Ki-duk è stata una scelta di ripiego. La Coppa Volpi agli attori di The Master era imprescindibile. E siccome il regolamento vieta che chi riceve il Leone d'oro conquisti un altro premio, a quel punto si è optato per Pietà. Un compromesso, forse. Ma la storia dello spietato usuraio che diventa più umano quando ritrova l'amore di una donna che si dice sua madre ha convinto l'eterogenea giuria. E qualcuno in questa storia di redenzione, che pure deflagra in un finale tragico, ha visto persino tracce di cristianesimo. Vero o no, lo spartito della 69esima Mostra di Venezia è stato quello della mistica. Mistica della violenza e mistica della trascendenza. Tra le quattro bad-girl di Spring Breakers, il film di Harmony Corine a torto trascurato dalla critica, una si chiama Faith (Fede). «Bel nome, tu preghi», le chiede il gangster con i capelli rasta e i denti d'argento, James Franco. «Sì, prego». E quando la vacanza trasgressiva vira nel crimine, Fede molla le amiche e torna a casa. Sono rimaste solo due strade, sembrano dire la maggior parte dei film presentati al Lido: il nichilismo e le fedi. Violenza e preghiera. Solo che in certi casi la preghiera può trasformarsi in violenza. E la violenza può nascondere un bisogno disperato di salvezza. Da che parte le mettiamo, per esempio, le avemarie isteriche di Iabelle Huppert nella Bella addormentata? E le flagellazioni e le torture che s'infligge la protagonista di Paradise: Faith a quale dei due mondi appartengono? Ci sono una fragilità e un bisogno di ritrovare se stessi diffusi, incarnati per esempio dal reduce nevrotico e alcolizzato di The Master, che percorrono questi anni di crisi del capitalismo seguiti al crollo delle ideologie. Ancora, che dire della riflessione sulla bellezza e sulla grazia salvifica del film di Malick?
Prese singolarmente, parecchie opere in gara erano obiettivamente modeste. Forse va rivalutato il discorso complessivo.

Parlando di rabbia e vendetta da una parte e di senso religioso dall'altra è come se, tutte insieme, le storie di questi registi facessero intendere che il nostro tempo è arrivato al dunque. E che non ci sono più alibi e mediazioni consolatori. Magari involontario, questo è un merito della Mostra appena conclusa. E va riconosciuto.

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