Heller, la fine del marxismo firmata dall'allieva di Lukács

In "Teoria della storia" la studiosa ungherese mostra il fallimento della filosofia del progresso

Heller, la fine del marxismo firmata dall'allieva di Lukács

Aveva appena 18 anni quando nel 1947, all'Università di Budapest, Ágnes Heller (1929) cominciò a frequentare le lezioni di filosofia di György Lukács, all'epoca al culmine della sua notorietà come pensatore marxista il cui nome era legato a un'opera, Storia e coscienza di classe (1923), ritenuta un caposaldo della rilettura del marxismo e destinata a avere un'influenza sugli esistenzialisti francesi e sugli studiosi della Scuola di Francoforte. La Heller divenne allieva, assistente e poi collaboratrice di Lukács e dette vita, nella seconda metà degli anni '50, assieme ad altri studiosi, alla cosiddetta Scuola di Budapest che si proponeva una sorta di rinascita del marxismo attraverso un riesame dell'intera storia della filosofia.

Il principale punto di riferimento di questi studiosi era, naturalmente, Storia e coscienza di classe, ma a quest'opera se ne era aggiunta un'altra, forse dell'altra ancora più importante e dirompente, dello stesso Lukács, La distruzione della ragione, pubblicata nel 1954 al culmine della Guerra fredda, ma in gran parte composta a Mosca durante la Seconda guerra mondiale. Quest'ultimo lavoro era dedicato al «dramma filosofico della Germania»: ripercorrendo gli sviluppi del filone di pensiero irrazionalista, Lukács sottolineava una continuità speculativa dal Romanticismo al nazionalsocialismo sottintendendo, di fatto, che l'ascesa al potere di questo non era stato un evento accidentale ma un fenomeno preparato filosoficamente da lungo tempo. Per quanto scritto nella convinzione di muoversi nella piena ortodossia marxista, il saggio di Lukács come osservò Augusto Del Noce si prestava ad essere letto in chiave non marxista perché finiva per sottolineare l'esito totalitario di tutte le filosofie, compreso il marxismo, imparentate in qualche modo con la tradizione idealistica.

Ágnes Heller si propose, sempre sulla scia di Lukács, di rileggere Marx con il fine di superarne le interpretazioni dogmatiche all'epoca diffuse. Lei e i suoi amici della «scuola di Budapest» scoprirono un Marx diverso da quello ufficiale consacrato nel primo libro del Capitale, l'unico allora conosciuto nell'ambiente accademico ungherese perché fino al 1953 il Marx non economista era, come avrebbe poi raccontato la Heller stessa, «materiale secretato». Così, la Heller scoprì il Marx giovanile, quello dei Manoscritti economico-filosofici del 1844 (detti anche Manoscritti di Parigi) e si concentrò su alcuni temi che la condussero, fra l'altro, a elaborare la categoria dei «bisogni radicali» grazie alla quale il suo nome sarebbe divenuto famoso nel mondo. Cominciò a discorrere non più di rivoluzione politica ma di rivoluzione della vita quotidiana e la sua «ortodossia» marxista, poco alla volta, iniziò a vacillare sia di fronte ai fallimenti del «socialismo reale» sia nel confronto con altri sistemi speculativi. Non è un caso che recentemente la Heller abbia dichiarato di non essere più marxista e abbia aggiunto di non esserlo, forse, mai stata almeno nel senso ortodosso del termine quale era allora indicato dai dirigenti comunisti del suo Paese.

Del resto, a partire dall'ultimo scorcio degli anni '60 in particolare dall'intervento sovietico in Cecoslovacchia, la sua stessa esistenza era stata segnata da alcuni fatti destinati a lasciare il segno, a cominciare dall'espulsione dall'università con l'accusa di deviazionismo: fatti che l'avrebbero spinta nel 1977 a lasciare l'Ungheria per emigrare in Australia dove avrebbe insegnato all'Università di Melbourne prima di essere chiamata a New York a ricoprire la cattedra intitolata ad Hannah Arendt presso la New School for Social Research.

In Ágnes Heller l'avvicinamento all'etica e l'abbandono della prospettiva marxista furono accompagnati dalla presa di coscienza del fallimento delle filosofie della storia a cominciare da quella marxista. Uno dei suoi lavori più significativi, anche per capirne l'evoluzione intellettuale, il ponderoso saggio Una teoria della storia (Castelvecchi, pagg. 352, euro 29) si sviluppa proprio all'insegna della differenza tra «filosofia della storia» e «teoria della storia». La prima come ben dimostra il caso del marxismo, per la Heller «una delle più rigorose filosofie della storia» ha insito in sé il concetto del dover essere, l'idea di un futuro che discende dal presente come un prodotto necessario e inevitabile. La seconda, invece, non accetta il dover essere se non come una idea o, se si preferisce, una possibilità e mai come una realtà. La differenza è sottile ma profonda e separa il terreno della deriva utopistica, quella per intenderci della certezza di un «progresso storico universale», dal terreno della concretezza e del realismo storico. Si tratta pur sempre di un approccio filosofico alla storia ma con esiti molto diversi in relazione al concetto di progresso. Scrive in proposito la Heller: «Le filosofie della storia sostengono che la specificità della nostra cultura è di indurci a riconoscere la tendenza generale del progresso o del regresso attraverso tutta la Storia. È questa la falsa coscienza della filosofia della storia. La teoria della storia ci convince invece della validità dell'ipotesi secondo cui nelle società che non hanno sviluppato le nozioni di progresso e regresso non vi è stato in realtà né progresso né regresso, e quindi non siamo autorizzati a riconoscerlo».

Interessandosi della filosofia della storia, della teoria della storia, ma anche della storiografia e della sua metodologia, la Heller ha incontrato alcuni forti pensatori che si sono occupati degli stessi suoi temi: da Robin George Collingwood, seguace inglese di Benedetto Croce, all'economista Karl Paul Polanyi fino al grande epistemologo e teorico della società aperta Karl Popper, autore del libretto aureo Miseria dello storicismo il cui titolo dice tutto. Si tratta di pensatori lontanissimi dalle filosofie della storia, e in particolare da quella marxista.

Non è privo di significato che essi siano diventati interlocutori privilegiati di Ágnes Heller, la quale, al termine della sua riflessione, messi da parte i discorsi sulla filosofia della storia e sulla teoria della storia, finisce per consegnare al lettore una immagine tradizionale e, per certi versi, rassicurante della storiografia come di una disciplina che si limita a spiegare «le conquiste e i fallimenti degli uomini nella loro dimensione spazio-temporale». Quanto, insomma, di più lontano ci sia dal marxismo.

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