"Ho raccontato il nazismo delle persone normali: la peggiore delle paure"

La vincitrice del Campiello (e autrice del libro dell'anno): "Io non parlo né di eroi né di vittime"

"Ho raccontato il nazismo delle persone normali: la peggiore delle paure"

Dieci edizioni in otto mesi e diritti venduti in 14 Paesi: per Le assaggiatrici (Feltrinelli) di Rosella Postorino, che già vinse il premio Rapallo a luglio, il premio Campiello di Confindustria Veneto arriva a confermare un successo partito a gennaio scorso. E tuttavia il fatto che la scrittrice quarantenne, editor per Einaudi, nata a Reggio Calabria ma di casa a Roma da 17 anni, abbia stravinto, sabato sera alla Fenice, doppiando due volte il secondo classificato, Francesco Targhetta col suo Le vite potenziali (Mondadori) - per 167 voti contro 42 - e stracciato lo Strega Helena Janeczek (29 voti), Ermanno Cavazzoni e Davide Orecchio, 25 e 15 voti, la dice lunga su quanto profondamente la storia della giovane moglie tedesca con marito in guerra Rosa Sauer - che nel 1943 accetta, tre volte al giorno, la roulette russa di fare l'assaggiatrice per il Führer - abbia colpito.

Che idea si è fatta delle motivazioni di questa vittoria schiacciante?

«Questo è un libro che può essere letto a vari livelli. Il nazismo è un periodo fertile per la narrazione: emblematico di come la sopraffazione dell'essere umano su un altro essere umano sia qualcosa con cui noi non abbiamo ancora fatto i conti perché non è possibile farli. Sono conti inesauribili. Io propongo un punto di vista inedito: le assaggiatrici sono donne, quindi marginali, perché non sono generali né eroi. Però sono anche un piccolo esercito, perché mettono la loro vita al servizio della patria e sfidano la morte. E infine c'è l'elemento cibo, in cui tutti riconosciamo la metafora di vita, nutrimento, morte, ma anche cura, convivialità, relazione, rituale».

Una complessità che potrebbe spaventare.

«In effetti avevo paura che il libro potesse essere complicato: non racconta la vita dei buoni o delle vittime, non c'è un eroe neanche a pagarlo, né ferocia, né cattivi. C'è la zona grigia delle persone normali, che non avevano intenzione di fare del male e alla fine hanno collaborato con il nazismo per sopravvivere. Forse però è piaciuto proprio per questo».

Quanto l'ha aiutata essere editor?

«Lavoro per uno dei marchi più prestigiosi d'Italia, Einaudi, ma in una collana, Stile Libero, che ha la vocazione pop, nel senso di popolare. Quando Cesari e Repetti l'hanno fondata, la genialità è stata metterci qualcosa di ribelle, che non credeva nella distinzione tra intellettuale e massa e guardava al valore del singolo libro. Questo mi ha aiutata a creare un romanzo senza forme di snobismo: se un tema mi sta a cuore voglio che arrivi a più persone possibile. I classici che rileggiamo oggi, come Tolstoj, veicolavano temi anche sottili e controversi attraverso storie: il modello era quello».

Il suo modello per Le assaggiatrici qual è stato?

«Ho voluto essere smart, trasversale nei confronti dell'oggetto libro e ho ragionato, molto più che nei miei romanzi precedenti, sulla struttura narrativa: volevo che il lettore avesse voglia di girare pagina. Ci vuole una forma di umiltà nei confronti del pubblico, un impegno continuo a scrivere scrivere scrivere, fino alla soluzione migliore».

Le sue letture per preparare il plot?

«I profili psicologici e psicografici del Führer. Le intercettazioni di soldati della Wehrmacht. Una donna a Berlino di Marta Hillers. Clandestina di Marie Jalowicz Simon. Heinrich Böll, Wolfgang Borchert, Thomas Bernhard. Ma anche tutto Heimat di Edgar Reitz, film a cui rendo omaggio nel libro con i nomi di Pauline e Ernst».

Gli anni del nazismo e del fascismo visti dalla parte dei nazisti e dei fascisti hanno acquisito per gli scrittori nuovo Millennio un peso narrativo potente: Littell, Amis, Timur Vermes e ora anche M di Scurati. Il suo romanzo fa parte di questo filone?

«In questo il mio romanzo è diverso: mi sono messa nei panni di una donna non ebrea né vittima né nazista. Non è la voce del protagonista di Littell e non è nemmeno Mussolini, la figura iconica spaventosa che in Scurati immagino, perché non ho ancora letto il libro si esprime nel tentativo di esplorare la mente di chi ha fatto la storia. Io cerco il punto di vista di chi nei libri di storia non ci va».

I premi fanno bene o male alla letteratura?

«Ho vissuto il Campiello come un'esperienza di viaggio con gli altri finalisti, forse anche perché sono editor e ho uno sguardo di accoglienza sulla scrittura degli altri.

Devo dire però che il Premio quest'anno ha ben evidenziato le tendenze narrative globali: basti pensare a quanti autori cercano di fotografare la contemporaneità nella sua fuggevolezza, come Targhetta, ai distopici come Cavazzoni o a George Saunders, Jennifer Egan, Colson Whitehead che vanno verso il romanzo storico, come me, Orecchio e Janeczek».

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