Cultura e Spettacoli

Hunt, non ci sono più i vagabondi di una volta

Lo scrittore replica, 80 anni dopo, il tour europeo di Fermor. E la festa diventa sofferenza esistenziale

Hunt, non ci sono più i vagabondi di una volta

Negli anni Trenta del Novecento, il diciottenne Patrick Leigh Fermor vagabondò dall'Olanda alla Turchia in un viaggio che era di formazione quanto di piacere. Nel darne molti anni dopo un memorabile resoconto scritto, non a caso lo intitolò A Time of Gifts, «Tempo di regali», ovvero il tempo della giovinezza, quando ogni cosa ti sorprende, il sole splende alto e la neve non è mai sporca.

Negli anni Venti del secolo attuale, il trentenne Nick Hunt ha deciso di rifare quel percorso nello stesso spirito del suo più giovane ispiratore, ovvero «come un vagabondo, un pellegrino o un chierico vagante», e quindi avendo come strumento principale di trasporto le proprie gambe. Niente auto, aerei, treni, navi, dunque, un arco di durata di sette mesi, 4mila chilometri percorsi, otto Paesi attraversati... Il suo compendio è questo Camminando fra i boschi e l'acqua (Neri Pozza, pagg. 361, euro 18, traduzione di Laura Prandino), che ha appunto come sottotitolo «Dalla punta dell'Olanda al Corno d'oro sulle tracce di Patrick Leigh Fermor», un omaggio e insieme una prova d'autore.

Il ripercorrere itinerari altrui e più famosi non è una pratica nuova e ormai è divenuta una pratica abituale, anche se raramente con risultati felici. Nel caso in questione, di là dall'ammirazione e/o dall'invidia che si può provare per exploits fisici quanto mentali, il seguire il corso di due grandi fiumi, il Reno e il Danubio, l'attraversare catene montuose, il prendere confidenze con brandelli di sette lingue diverse, ciascuna rimandante a psicologie differenti, quello di Hunt è un bellissimo libro che ripaga chi lo ha scritto dallo sforzo fatto e offre a chi lo legge un'epopea della lentezza in un'epoca in cui la modernità ha fatto della velocità la sua ragion d'essere.

Ciò che però singolarmente resta fuori è quel «tempo di regali» che contrassegnava lo stile e lo spirito del racconto fattone da Leigh Fermor, un'assenza che non ha tanto o solo a che fare con la personalità dei singoli autori, e nemmeno con l'età. Fermor mise mano al suo viaggio avventuroso di adolescente quando aveva superato i cinquant'anni e pur mantenendone l'essenza incantata della giovinezza, aveva l'esperienza, la cultura e l'uso di mondo di chi aveva molto vissuto e molto viaggiato. Quanto a Hunt, un suo precedente libro, Dove soffiano i venti selvaggi, è in linea con la biografia di chi ha nell'album di famiglia lo scalatore che guidò con successo la prima ascensione all'Everest nel 1953, e insomma l'avventura e l'epopea l'ha respirata sia in casa, sia fuori, sia nei libri letti, sia in quelli scritti.

Che cos'è allora che rende la lettura di Fermor una festa e quella di Hunt una sofferenza, non stilistica, esistenziale? Cos'è che trasforma un «tempo di regali» in un'età dove i doni non sono più possibili o, se anche li ricevi, non sai più con chi e dove giocarci?

Un primo elemento è che il viaggio di Hunt, per sua stessa ammissione, «è la versione da barbone» di quello di Fermor. Il «barbonismo» non ha tanto a che fare con le frequentazioni o le dimore, ha la sua ragion d'essere nel fatto che Fermor si muove con naturalezza in un'epoca dove «il traffico a motore era ancora una novità», laddove Hunt vede il suo andare a piedi trasformato in un qualcosa di artificiale: «In aperta campagna, con i miei scarponi e la barba di due settimane, mi accettavano come camminatore; nel centro storico delle città, seduto sui gradini di una chiesa a mangiare pane e formaggio, mi prendevano per un turista. Ma in quella terra di nessuno, uno spazio intermedio che non era né rurale né urbano, la mia presenza non trovava spiegazione, non rientrava in alcuna categoria». Detto in altri termini, «quando camminava Patrick in Germania esistevano poco più di un centinaio di chilometri di autostrade; adesso che ne seguivo i passi, ottant'anni più tardi, i chilometri erano più di diecimila. L'impatto sul paesaggio era ovvio, ma considerando gli effetti di più ampia portata, sentivo che a marcare quel percorso un cenotafio sarebbe stato più adeguato, un monumento al Camminatore ignoto».

Un secondo elemento è il rendersi conto che ciò che si è guadagnato in rapidità, praticità, sfruttamento delle risorse in nome di un benessere più largo, lo si è pagato distruggendo quella che era un'armonia naturale, un rapporto natura-cultura che pur con tutte le sue imperfezioni funzionava in una logica di scambio. «Pizzerie e negozi di souvenir superavano per numero le chiese bizantine, e le antiche mura di pietra facevano solo da sfondo alle foto di bionde russe. Le reliquie del passato servivano solo a evidenziare la volgarità di ciò che l'aveva sostituito».

Non si tratta di rimpiangere un Et in Arcadia ego bucolico e pastorale, mai esistito nella sua variante estetizzante, caso mai terribilmente duro nella sua realtà quotidiana, quanto di dover constatare che ciò che comunque rendeva possibile il «tempo di regali» di Fermor, un ritmo di vita più disteso, la ricchezza e la diversità delle tradizioni, degli usi e dei costumi, il fascino della natura, è stato sostituito dalla pratica uniformità di un sistema di valori che moltiplica il superfluo e fatica ad accettare l'inutile, ciò che ha valore in sé, si tratti di un monumento come di un bosco... Non è un caso che i compagni di viaggio occasionali di Hunt, quelli che lo accolgono, lo aiutano, lo rifocillano, facciano sempre parte di comunità in dissenso con il modello di vita imperante, intellettuali scontenti, hippies in fuga dalla cosiddetta società del benessere, laddove quelli di Fermor, che siano aristocratici o che siano contadini, marinai, gente semplice, si muovono invece in sintonia con il proprio. Quello che negli anni Trenta era un'ossessione dettata dalla paura di un minaccioso futuro - «Tutto è destinato a scomparire. Parlano di costruire dighe sul Danubio e io tremo quando ci penso! Addomesticheremo il fiume più selvaggio d'Europa come un acquedotto municipale» -, si rivela ottant'anni dopo una realtà agevolata dalle circostanze: una guerra mondiale, la cortina di ferro dei regimi dittatoriali dell'Est Europa, l'industrializzazione forzata.

L'Europa orientale, Slovacchia, Ungheria, Romania, Bulgaria, dove del resto si svolge gran parte del viaggio di Fermor e di Hunt, colora il tutto di una luce più cupa. «Abbiamo la democrazia, ma non abbiamo una società civile. Si chiama apatia postcomunista» dice un amico bulgaro di quest'ultimo. Mezzo secolo di comunismo «ha insegnato a ubbidire, a lasciare che fossero le teste pensanti del Partito a prendere le decisioni per noi, a non ragionare con le nostre teste. Sentirci dire per cinquant'anni che eravamo stupidi e meschini ci ha reso davvero stupidi e meschini». Ceausescu, per dire la parte per il tutto, si diede da fare per trasformare «i suoi contadini in moderni cittadini di una società industriale: voleva delle macchine, non delle persone». Per inciso, la scomparsa, una sorta di pulizia etnica a opera dei regimi comunisti del secondo dopoguerra, di quell'aristocrazia dell'Est Europa, la sua cultura, la sua curiosità, la sua civiltà in una parola, e che ha molta parte nella grazia del libro di Fermor, ha avuto per contrappasso l'afasia culturale di ciò che è venuto dopo e di cui il libro di Hunt è una conferma: la difficoltà nel conversare, l'assenza di memoria, il non saper riconnettersi con il proprio passato quando per troppo tempo hai dovuto viverlo come un tabu...

Sull'Europa orientale molto altro ci sarebbe da dire e se quella di Fermor era ancora il retaggio della Mittel-Europa absburgica andata in frantumi con la Grande guerra, quella postcomunista di Hunt si rivela un mosaico slavo, Bulgaria, Repubblica Ceca, Slovacchia, che fatica a convivere con chi come Ungheria e Romania ha lingue e culture diverse e per di più fra loro rivali, un ribollire etnico e nazionalista che il coperchio posticcio della postmodernità e della cosiddetta Europa unita fatica a contenere e che fa riflettere quanto a destini comuni cementati soltanto da un'unica moneta.

Nel riassumere il suo viaggio, Hunt è più ottimista rispetto alla sensazione da noi provata nel leggerlo: «Il tratto più selvaggio dell'Europa non era mai troppo lontano» scrive, nonostante «lo sviluppo urbano, le strade e le dighe idroelettriche possano aver alterato irrevocabilmente il paesaggio». Soprattutto, scrive ancora, «non è cambiato molto in termini umani» e qui, raffrontando i due libri, si può essere d'accordo, perché la gentilezza e la generosità che Leigh Fermor sperimentò a suo tempo, l'ospitalità, il disinteresse, il calore e l'amicizia, sono dello stesso tenore che ha permesso a Hunt di vagabondare per quella parte del Vecchio continente.

La insospettata gentilezza del prossimo ci dice che un tempo di regali è in fondo ancora possibile, anche quando di regali sembra non essere più tempo.

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