Eppure ce l'hanno fatta. E basta ascoltare il loro primo (vero) singolo in 35 anni per accorgersi che non sono cambiati di una virgola, lentissimi, cadenzati, spettrali, insomma Black Sabbath: padri dell'heavy metal e zii del dark, cento milioni di dischi venduti, repertorio infinito di piccoli capolavori e grandi eccessi. Il brano, che ha un titolo bello pesante come God is dead? - Dio è morto? - anticipa l'album 13, che uscirà a inizio giugno e che i Black Sabbath hanno già iniziato a presentare dal vivo l'altra sera ad Auckland in Nuova Zelanda (scaletta da brivido per i nostalgici e nuovo batterista potentissimo, Brad Wilk dei Rage Against the Machine).
Sembrerà un fuoco fatuo, un lampo isolato di vecchie e ricchissime rockstar con tanto tempo libero. E invece no: da Bowie in avanti, il 2013 è l'anno del ritorno di tanti simboli degli anni Settanta, quelli sopravvissuti, quelli che hanno ancora voglia di alzare il volume.
Qualcuno va e viene, come Iggy Pop che la prossima settimana pubblica il (tostissimo) Ready to die pieno della sua voce cavernosa, di Sex and Money e di quella sincope hardcore che a 67 anni bisogna avere un fisico bestiale per riuscire a reggerla. Altri sono sempre in tournèe ma da otto anni non incidono nulla, come i Deep Purple, pronti a pubblicare l'atteso (attesissimo dai fans) Now what?! esattamente 45 anni dopo il primo Shades of Deep Purple. Nel frattempo hanno perso per strada componenti morti o feriti o folgorati dal folk medievale (Ritchie Blackmore), sono entrati nel Guinness dei Primati come band più rumorosa e nella storia del rock come autentici virtuosi: con Smoke on the water hanno firmato il riff di chitarra più semplice e incisivo, e con Child in time uno dei brani più difficili da eseguire dal vivo. Per capirci, quando nel 2009 hanno sostituito all'ultimo momento i litigiosi Oasis al I-Day Urban Festival di Milano, molti trentenni del pubblico sono arrivati quasi senza conoscerli ma poi sono andati via entusiasti dopo oltre due ore di musica ad altissimo livello. Insomma, non è un caso, ad esempio, che la Warner abbia appena pubblicato un cofanetto con i primi sei album di Van Halen, quelli tra il '78 e l'84: i tifosi del rock duro sono tra gli ultimi ancora legati al piacere ormai feticista di acquistare un disco e aumentano i giovanissimi che, trainati anche da «guide» come Spotify, hanno voglia di scoprire le origini di certe sonorità. Sono i corsi e ricorsi generazionali. «Senza i Black Sabbath non esisteremmo neppure noi» ha detto una volta James Hetfield dei Metallica. E non esisterebbe, anche, una parte di quella iconografia che ha molto aiutato il rock a diventare leggendario. Per capirci, quando li lasciò, anzi fu cacciato dalla band nel 1978, il cantante Ozzy Osbourne si rinchiuse in un albergo di Beverly Hills con duemila dollari di alcolici: «Me li bevo tutti, poi, se sopravvivo, apro un pub nella mia Birmingham». Invece arrivò la futura moglie Sharon Arden che lo ripulì, si fa per dire, e lo aiutò a decollare come solista (altri 50 milioni di dischi venduti) fino a essere oggi l'unica rockstar studiata da un'equipe di medici per capire come faccia ad essere ancora vivo nonostante alcol e cocaina. «Sto cercando di diventare una persona migliore», ha detto lui scusandosi pubblicamente l'altro giorno dopo l'ennesima ricaduta. Chi invece sta cercando molto più semplicemente l'occasione giusta (per riunirsi di nuovo) sono i Led Zeppelin, che il nuovo libro fotografico di Neal Preston Sound and fury (in vendita su iBookstore di Apple) mostra al massimo dello splendore negli anni '70 e che a questo punto rimangono gli ultimi grandi assenti discografici.
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