Venezia - Ci voleva un presidente di giuria italiano per (ri)consegnare il Leone d'oro a un'opera nostrana, quindici anni dopo il successo di Così ridevano di Gianni Amelio, stavolta rimasto a secco. Era il 1998 e presiedeva Ettore Scola. Oggi il venerato maestro Bernardo Bertolucci è al centro delle polemiche per aver premiato un cinema ostico e punitivo per gli spettatori (la triade Miss Violence, Stray Dogs e La moglie del poliziotto), con un verdetto che allargherà ulteriormente il fossato tra festival e grande pubblico. E che porterà nuova acqua al mulino degli ultrà dei cinepanettoni. Fioccano un po' dovunque soprattutto le accuse di provincialismo. Nei social network c'è chi si chiede come si riuscirà a vendere fuori dai confini nazionali un documentario come Sacro Gra, girato sul raccordo anulare alla periferia di Roma. L'anno prossimo chi realizzerà un lungometraggio sulla Salerno-Reggio Calabria potrebbe puntare all'Oscar... Il trionfo del nuovo cinema toponomastico in laguna è completato dalla Coppa Volpi a Elena Cotta di Via Castellana Bandiera. Ma le critiche si appuntano prevalentemente sul massimo riconoscimento al lavoro di Gianfranco Rosi. È qui che affiora il solito campanilismo, vecchio vizio di famiglia.
Prima di quello d Amelio, per trovare un altro Leone d'oro bisogna andare a ritroso fino al 1988 quando fu La leggenda del santo bevitore di Ermanno Olmi a conquistarlo. In quell'occasione toccò a Sergio Leone assegnarglielo dallo scranno più alto della giuria, confermando la regoletta presidente italiano ruggito nostrano. Ritornando al presente, fino a ieri il cinema italiano ha incassato solo premi per gli attori, da Luigi Lo Cascio a Sandra Ceccarelli, da Giovanna Mezzogiorno a Silvio Orlando, con l'eccezione di due riconoscimenti, persino troppi, a Emanuele Crialese (Nuovomondo e Terraferma). È pur vero che nel Duemila il presidente Mario Monicelli non volle dare il Leone a Buongiorno, notte di Marco Bellocchio per una vecchia ruggine e un dissenso di natura ideologica sulla delicata faccenda del sequestro Moro. E che nel 2001 Nanni Moretti premiò l'indiano Monsoon wedding consegnando le coppe Volpi a Lo Cascio e alla Ceccarelli per Luce dei miei occhi. E, infine, che nel 2005 Dante Ferretti consegnò il massimo riconoscimento ai cow-boy gay di Brokeback Mountain. Ma il fatto che in qualche caso l'appuntamento tra presidente e Leone d'oro italiani sia saltato non smentisce che i nostri registi vincano solo quando c'è un santo in giuria. Già così, la «coincidenza» degli ultimi tre ruggiti è un'abitudine sufficientemente inelegante. Se l'abbinata fosse immancabile sarebbe addirittura ridicola, come lo fu al Festival di Berlino nel 1991, come ha ricordato di recente Michele Anselmi sul Secolo XIX. Con Gillo Pontecorvo presidente l'Italia strappò l'Orso d'oro per La casa del sorriso di Marco Ferreri, la migliore regia di Ricky Tognazzi per Ultrà e il Premio della giuria per La condanna di Bellocchio.
Insomma, è il prestigio del presidente a influenzare le scelte delle giurie. Se ci si pensa bene, pilotarle è una forma di regia che ha come attori gli altri componenti del collegio. Forse bisognerebbe avere la signorilità di astenersi dal candidare autori e opere di casa, ma superare la tentazione di mostrare il proprio ascendente e il proprio potere non è facile.
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