I concerti al cinema Ecco il nuovo rito rock con i Doors inediti

In 300 sale lo show del '68 davanti a Jagger e ripreso da Harrison Ford. Ray Manzarek: "Jim Morrison forse si era fatto troppo acido". E scoppia la moda della cine-musica in Hd...

I concerti al cinema Ecco il nuovo rito rock con i Doors inediti

Lì per lì sembra solo un regalino per nostalgici: dopodomani trecento cinema italiani proietteranno il concerto dei Doors all'Hollywood Bowl di Los Angeles. Anno 1968. Audio restaurato e ora favoloso (Dolby Surround 5.1). «Come se foste stati sul palco con noi» conferma Ray Manzarek, tastierista, 74 anni, sopravvissuto al bombardamento di stupefacenti dell'epoca e ora testimonial di una delle band che hanno cambiato il rock o, perlomeno, il suo fascino. D'altronde basta vedere Jim Morrison quella sera: efebico, invasato, pallidissimo quando canta The end prima di sparire nei camerini. In poche parole il modello perfetto da sbriciolare nell'autodistruzione. Morirà a Parigi esattamente tre anni dopo nel candore diafano, simbolicamente nichilista, di una vasca da bagno manco fosse Marat (il concerto è del 5 luglio, lui se ne andrà il 3, proprio il giorno in cui suo padre diventava ammiraglio della Us Navy).

La sera dell'Hollywood Bowl è in fondo un paradigma del rock. I Doors, in piena eclisse della ragione, avrebbero voluto cinquanta amplificatori a testa «per far ascoltare Light my fire a tutto l'Hollywood Boulevard» ricorda Manzarek. Invece ne ebbero al massimo due a testa e via andare. Prima dello show, andarono a cena in un ristorante cinese con Mick Jagger e si stordirono di sakè. Poi Mick Jagger scivolò in platea con i suoi Rolling Stones e Jim Morrison fece Jim Morrison: «Aveva preso troppo acido o non ne aveva preso abbastanza» ricordano Manzarek e il chitarrista Robbie Krieger. Il concerto è spettralmente bellissimo: Backdoor man è piena di enfasi, Horse latitudes raramente eseguita così bene, Hello I love you risveglia i 18mila del Bowl che erano in tutt'altre faccende affaccendati (sesso, droga, insomma si sa) e Light my fire va avanti per oltre dieci minuti, tra assoli di tastiera (belli), di chitarra (banali) e di voce (spiritata), in una apoteosi della perdizione che è il sigillo di un'epoca.

«Con The End il pubblico rimase devastato, troppo debole per applaudire, tutti andarono a casa con questo ricordo per sempre», dice John Densmore il batterista. Un successo ammutolito. Tra i quattro cameraman che manovravano le telecamere c'era anche - così si dice - Harrison Ford che, per mantenere moglie e figli, faceva il falegname. Anche lui, disilluso dal cinema che poi se lo ripigliò in American Graffiti, era parte di quel gigantesco tsunami rituale che allora erano i concerti rock. E che ora rinasce al cinema, forse perché ogni epoca ha la propria palingenesi di massa. Già il concerto dei Queen Hungarian Rhapsody ha incassato oltre centomila euro in appena due giorni. I film di Vasco e Ligabue sono andati benissimo. I Led Zeppelin alla 02 Arena hanno portato in sala cinquantunmila persone. E, dopo il George Harrison di Scorsese e i Blues Brothers rimasterizzati, ora arriva anche il documentario sul blues di B.B. King.

E non è merito della semplice nostalgia, almeno a giudicare dall'età media degli spettatori. È proprio il desiderio togliersi gli auricolari, ossia il frutto solitario della musica digitale. E condividere finalmente le emozioni che scaturiscono dalla musica che non per nulla si chiama popolare.

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