"I miei Simple Minds sono rinati in Italia. La musica oggi? Più moda che impegno"

La popstar ha preso la cittadinanza italiana: "Giocando a calcio mi è tornata l'ispirazione"

"I miei Simple Minds sono rinati in Italia. La musica oggi? Più moda che impegno"

Proprio così: «Ora sono cittadino italiano». Il bello di essere Jim Kerr. È cortese, ragiona, si gode la vita, ama riamato, non si droga, non beve, non fuma, non se la tira, parla pure italiano «ma come un bambino», insomma è una popstar che non è affondata nei luoghi comuni. Nel 1977 ha creato i Simple Minds che ora tornano con un disco nuovo (Direction of The Heart per Bmg) dopo essere stati negli anni Ottanta, con gli U2 e pochi altri, il simbolo di un nuovo rock sganciato da virtuosismi e maledettismo dei decenni precedenti. Grazie a successi come Don't You o Alive and Kicking e a dischi come New gold dream hanno venduto oltre sessanta milioni di dischi, riempito gli stadi e segnato le passioni di una generazione. In più, Jim Kerr, che oggi ha 63 anni rotondi e sereni e si è sposato prima con la scatenata Chrissie Hynde e poi con la super glamour Patsy Kensit, è pure l'immagine vincente delle discese ardite e delle risalite dell'artista che in fondo riesce a rinascere. Per capirci, alla fine degli anni Novanta i Simple Minds erano in via di estinzione: la casa discografica li aveva salutati, il manager pure, il pubblico figurarsi: «Se sei la band di una generazione, è normale che quella successiva ti voglia uccidere, perché nessuno vuole ascoltare la musica dei genitori».

E allora, caro Jim Kerr, cos'è capitato?

«Sono andato a vivere in Sicilia, pensavo che quel capitolo della mia vita fosse finito. Dopotutto, anche i Beatles sono durati neanche dieci anni e non è che tutti devono essere come i Rolling Stones. Mi sono detto: ok vediamo che succede».

Quindi?

«Dopo un anno ero già integrato nella collettività, andavo pure a giocare a pallone con i ragazzi del posto. Tutti arrivavano con dischi da autografare ma io a tutti rispondevo: ehi, io non sono più quella cosa lì, non sono più una popstar». Un giorno un ragazzo, Daniele Tignino, mi chiese consiglio per una canzone, Beautiful stranger. L'abbiamo scritta, era bella e quella sensazione mi ha dato un click per tornare alla musica».

L'Italia.

«La mia prima volta è stata in gita scolastica. Da Glasgow a Rimini. Allora ho scoperto che il mondo era a colori».

Poi?

«Poi sono stato in Sicilia, di cui mi aveva parlato tanto mio nonno che ci aveva combattuto. Sono passato dalla Calabria, poi ho preso il traghetto ed ecco la Sicilia, il mare. Ho capito che un giorno ci sarei ritornato».

E i cantanti italiani?

«Vasco, Battiato, che peccato se ne sia andato».

I Maneskin?

«La band che ha vinto lo spettacolo in tv, l'Eurovision? Una bella energia».

Quando ha deciso di vivere a Taormina (dove ha pure un albergo)?

«Prima della Brexit. Ora sono cittadino italiano e tra poco avrò un passaporto, ma prima devo fare un esame».

La Brexit.

«Non conosco nessuno che la volesse. La situazione nel mio paese ora è crudele. Se penso quanto eravamo emozionati a diciassette anni io e Charlie (il chitarrista Burchill - ndr) a girare l'Europa in autostop. Abbiamo dormito anche nelle stazioni di Milano e Verona, ci tenevamo i soldi per dormire al coperto se pioveva».

La musica popolare da allora sembra aver perso passione politica.

«Prima della caduta del Muro la politica era più semplice da capire: destra, sinistra, Usa e Urss ecc.. Ora è fluida come il mio caffè. Non è facile schierarsi, anche se in giro mi sembra di vedere tanti che sembrano bambini stupidi».

Voi avete scritto «Mandela Day».

«Ma visionari come Mandela non ci sono più. Allora la musica era comunque al centro, ora è solo una pertinenza. E gli stessi musicisti sono simboli di brand e sono sponsorizzati...».

Difficile che prendano posizioni politiche.

«Io sono stato socialista perché sono nato a Glasgow piena di operai e sindacati».

La prima canzone del nuovo disco «Vision thing» è stata ispirata dalla morte di suo padre.

«Era un muratore e non voleva che facessi musica ma che andassi all'Università. Però mi ha dato le cento sterline che sono servite a me e a Charlie per incidere le prime canzoni e farle sentire a Londra. Piacquero e firmammo il primo contratto. Mio padre mi ha chiesto fino all'ultimo indietro i soldi con gli interessi, ma non glieli ho mai dati (il suo sorriso malinconico dice tutto - ndr).

I momenti più belli della carriera? Live Aid? Gli stadi?

«Ma no. Quei concerti come a Torino quando suonammo con Peter Gabriel e sul palco ci tirarono di tutto. Io pensavo: un giorno pagherete il biglietto per vederci. Quella è stata la sensazione più bella della mia carriera».

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