Cultura e Spettacoli

I sussurri di Sbarbaro nel silenzio del '900

La visione sconsolata e nullificante del poeta trova conforto negli affetti e nella Natura

I sussurri di Sbarbaro nel silenzio del '900

Avevo un debito con Camillo Sbarbaro. Negli anni Sessanta non scesi mai a trovarlo a Spotorno, nella sua casetta tra gli ulivi e i limoni, mentre facevo il pendolare tra la Riviera e Milano con in testa Eliot , Sanguineti e tutte le avanguardie del mondo. Poi, decenni dopo, a Parigi, durante una manifestazione al Palais de Tokyo mi venne richiesto di leggere, dopo i miei testi, quelli di un poeta da me amato. Pagai il mio debito: lessi quelli di Sbarbaro, e gli astanti se ne innamorarono. Un anno dopo, uscì la prima traduzione di Sbarbaro in francese, a cura di Jean-Baptiste Para, Bruna Zanchi e Bernard Vargaftig, con una mia introduzione.

Ripenso a Sbarbaro oggi di fronte al «Meridiano» che gli ha dedicato Mondadori (Poesie e prose, a cura di Giampiero Costa, pagg. 1582): il mio amore per lui è ancora quello, e lui occupa un posto sempre maggiore nel mio pantheon. La sua vita terrena fu in fondo quella di un poeta semisfortunato: pochi accessi alla grande editoria, pochi premi, poca o nulla udienza internazionale, una partecipazione defilata alla società letteraria, un impiego in una industria siderurgica, poi anni e anni a campare di lezioni private e traduzioni dal greco e dal francese. Una adorazione per il padre, una sintonia profonda con la sorella Clelia, dalla quale non si distaccò mai. Nel 1960, aveva già 72 anni, corse in pullman a Savona per comperare una rivista su cui con piacere infantile lesse una recensione dedicata a lui da Caproni, non senza passare al mercato a prendere gli asparagi, per festeggiare. Raccolse e catalogò licheni con precisione da botanico, attività con cui, disse, «ho dato anch'io una mano all'inventario del mondo». Eppure quest'uomo umile, timido, scabro e dolcissimo come lo conobbe e descrisse da vecchio Gina Lagorio, come sin dall'inizio lo vide Adelchi Baratono, suo primo mentore, che presentandolo a Mario Novaro, direttore di Riviera Ligure, scrisse: «Non ha alcuna smania letteraria, canta come un usignolo, per cantare», fu un uomo a suo modo felice, e autore di versi di una straordinaria bellezza e importanza, che ne fanno un punto di riferimento essenziale nel nostro Novecento.

Cominciò con Resine, nel 1911: poesie dalle rime musicali, sonetti ben costruiti, ma niente di nuovo rispetto al clima stabilito da un Pascoli o da un Gozzano. Non so che cosa sopravvenne perché solo tre anni dopo, in Pianissimo, Sbarbaro cambiasse tanto radicalmente le carte in tavola. E cominciasse a parlare sommessamente alla propria anima, indifferente e rassegnata alla gioia e alla sofferenza, invitandola a tacere mentre la sirena del mondo perdeva la sua voce e il mondo diventava un grande deserto.

Nessuno vide arrivare la crisi di aridità e di silenzio del Novecento, dopo poco più di dieci anni da Maia, il capolavoro mitopoietico di Gabriele d'Annunzio, con più perentorietà di Sbarbaro. Vaga nella lussuria e nella Perdizione, tra puttane, ubriachi, camminando per i «lastrici sonori della notte», al risveglio lo «riempie di terrore/ la disperata luce del mattino», e se per qualcosa può ancora amare la vita, è proprio per il suo «amaro», in una visione sconsolata e nullificante. Agli occhi di questo poeta che sembra defilato, provinciale, Genova, la sua città, appare come l'erede della Parigi di Baudelaire, e anticipa la Unreal City di Eliot in La terra desolata. L'unica via di uscita da questa desolazione sono gli affetti familiari, espressi in maniera così universale nella poesia al padre («Padre, se anche tu non fossi il mio/ padre...») e soprattutto la Natura. Profetico, Sbarbaro parla della sacralità della Terra, le dedica una poesia che incorpora la più bella preghiera cristiana («Terra, tu sei per me piena di grazia»), e termina in un pianto catartico, in versi che io ancora oggi non posso leggere senza le lacrime agli occhi.

E poi l'amore. Sbarbaro, uomo di lussurie e che rivendica la lussuria come «eccesso di salute» stigmatizzando chi vorrebbe curarla, conosce l'amore tardi e fuggevolmente: ma i suoi Versi a Dina, contenuti in Rimanenze, sono per me i più bei versi d'amore del Novecento, e penso a quegli attacchi dalla sconfinata forza evocativa: «La trama delle lucciole ricordi/ sul mar di Nervi, mia dolcezza prima» o «E la vita sapessi e me che fu,/ Amore, prima che ti conoscessi...». Ecco, aridità, indifferenza, solitudine, angoscia, senso del nulla, tutto si disperde a contatto con la Natura e con l'Amore. Un messaggio che porta dalla disperazione alla speranza, dal buio alla luce. Alle poesie, si affiancano le prose, da Trucioli a Fuochi fatui: memoriette, paesaggi, aforismi, calembour, paradossi da acuto e dolce moralista, annotazioni letterarie, accensioni sapienziali. Vi si legge, per esempio: «Il ringraziare il sole è già preghiera, credo. Si prega da miope, senza chiedere» o «Chi ama e chiede contraccambio è un ricco che mendica da un povero», o ancora «La divisa della trota: controcorrente, in acqua limpida».

Ma la sua grandezza si affida ai versi, pochi, strappati al silenzio, sommessi nella loro musica incomparabile, in cui il poeta, da un disperato mondo di aridità, di lussuria, di Perdizione, può arrivare a scrivere una Lettera dall'osteria, fraterna e popolare, un'ode come Liguria, «scarsa lingua di terra che orla il mare», di una commozione quasi religiosa, finendo proprio lui, il povero piccolo uomo messo da parte in un angolo della sua terra, a parlare meglio di chiunque altro, con immensa tenerezza, dell'universo e della sua energia di vita, dell'anima umana e dei suoi abissi.

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