Il problema di Hermann Broch erano i soldi: ne aveva troppi (e fin qui, si dirà, poco male), e li doveva amministrare. Ecco il punto: ancora sui 35 anni, quando fra il 1920 e il '21 teneva Il diario di Teesdorf, scritto in forma epistolare per la sua amante, la giornalista modaiola Ea von Allesch, il ricco, ma inquieto e insoddisfatto direttore della filanda di Teesdorf, piccolo comune a sud di Vienna, svolgendo il compito impostogli dal padre Joseph non aveva tempo per il resto. Invece era proprio il resto ciò che gli interessava: la filosofia, la letteratura. Sperimentava, insomma, che il tempo è denaro, ma anche che il denaro richiede tempo. In quel diario, si ribellava alla tirannia del marco ristorandosi con le passioni per Ea e per la cultura. «Vorrei essere un poeta e avere uno stile sciolto», confessava, sognante.
Dovette pazientare un po': due anni per divorziare da Franziska von Rothermann, figlia di un imprenditore (1923), sei per vendere, dopo la morte del padre, la maledetta filanda (1927) e dieci per pubblicare I sonnambuli (1931). Con quel triplice romanzo, triadico come la formula hegeliana di tesi-antitesi-sintesi in cui possiamo leggere il romanticismo invalidante di Joachim von Pasenow, l'anarchia che soverchia August Esch e il realismo criminale di Wilhelm Huguenau, Broch aveva finalmente raggiunto la libertà a lungo cercata. Libertà che tuttavia durò poco, perché a seguito dell'annessione dell'Austria i nazisti nel '38 lo incarcerarono in quanto ebreo, e fu l'intervento di amici importanti come James Joyce a toglierlo dalla galera, favorendone l'espatrio negli Stati Uniti.
A dire il vero, prima della canea hitleriana qualcosa di ben altra natura aveva iniziato a erodere dall'uomo, dallo scrittore e dall'intellettuale Hermann Broch vari strati di libertà: la matematica che si era messo a studiare, la scienza. Anche la scienza, con il suo metodo ferreo, le sue leggi implacabili, la sua inappellabilità, è una dittatura... L'individuo può (a volte deve) obbedirle per il bene comune, ma soltanto se in cuor suo conserva il disincanto del pessimismo e gode dell'illusione, pur senza fondata speranza. Ma «speranza» è nei libri di Broch la parola-chiave, e nei Sonnambuli, dove si pone come arma contro il nichilismo, ricorrono in forma di suoi sinonimi i concetti di «redenzione» e di «vita nuova». Scrive Luigi Forte nell'Introduzione all'edizione Einaudi del '97: «Per questo romanzo sembra coniata la frase che Walter Benjamin mise a conclusione del suo splendido saggio sulle Affinità elettive di Goethe: Solo per chi non ha più speranza ci è data la speranza».
La speranza mal riposta è la vera protagonista di un altro romanzo di Broch, L'incognita, scritto in ben quattro versioni nel '33 e ora pubblicato da Carbonio Editore dopo oltre quarant'anni di assenza dalle nostre librerie (pagg. 186, euro 14,50, traduzione e introduzione di Luca Crescenzi, dal 20 gennaio il libreria). Cogliamone il momento decisivo: sono a colloquio Richard Hieck, il protagonista, matematico che dopo la laurea ha accettato senza entusiasmo l'impiego in un osservatorio astronomico, e sua sorella Susanne, datasi completamente alla religione, pur non prendendo i voti, e parlano del loro fratello Otto, il disordinato e inaffidabile artistoide di famiglia (ecco un'altra triade brochiana). Susanne è: «Ostinata al pari di lui (di Richard, ndr): erano entrambi cupi ottimisti. Kapperbrunn invece, pur nella sua allegria, era pessimista. Richard se ne rese conto all'improvviso: solo la rassegnazione rende lieti, mentre a chi ancora spera e nutre ambizioni è negata qualsiasi serenità: la totalità è una maledizione».
Kapperbrunn è anch'egli un matematico, ma, diversamente da Richard, non è devoto alla scienza. È, in sostanza, il vero deuteragonista di Richard, perché non crede che la scienza possa dare risposte certe a tutte le domande dell'uomo... Nell'introduzione, Crescenzi cita un passo di una lettera di Broch all'amico ed editore Daniel Brody in cui dice di aver scritto il romanzo nel tentativo di «svelare i fondamenti irrazionali di una vita interamente dedita alla più razionale delle conoscenze». Infatti è proprio l'irrazionalità di Richard a spingerlo a sognare l'Eden matematico dell'assoluta razionalità che tutto spiega e tutto governa. Sicché il suo fallimento è anche il fallimento di Broch, il fallimento dell'ottimismo della ragione. Chiosa Crescenzi: «Come Musil, Broch è un grande narratore del razioide, cioè di quella confusa zona d'ombra che accompagna e genera la scelta razionale». Richard è il quarto sonnambulo di Broch: non è romantico, non è anarchico (né anarca), non è realista, lui è scientista.
È già l'uomo post-moderno che vive di protocolli e di formule e non riconosce nemmeno l'amore, quando gli si presenta, vestito soltanto dell'alea del dubbio, dell'ipotesi. Così possiamo porre in calce alla sua sconfitta (e al trionfo involontario di Hermann Broch) la consueta formuletta tombale: «come volevasi dimostrare».
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