Luca Beatrice
Chiamiamola pure incerta, l'epoca schiacciata tra due guerre mondiali e attraversata da un ventennio di fascismo, eppure l'impressione è che allora l'Italia fosse un Paese centrale in Europa per arte, cultura, visione progettuale della modernità. A lungo sopito, per non dire censurato, dalla storiografia postbellica, questo periodo è da un po' di tempo oggetto di revisione critica culminata, dal punto di vista dell'arte, nella mostra del 2018 Post Zang Tumb Tuuum. Art Life Politics: Italia 1918-1943 alla Fondazione Prada di Milano. L'immensa quantità di materiale esposto testimoniò, una volta di più, la vitalità del Paese negli anni Venti che sono ora oggetto di una nuova e molto interessante riflessione. Si è da poco aperta al Palazzo Ducale di Genova la mostra Anni Venti in Italia. L'età dell'incertezza (fino all'1 marzo 2020) attraverso un centinaio di opere organizzate in nove sezioni da Matteo Fochessati e Gianni Franzone, dai titoli suggestivi come volti nel tempo (i ritratti), attese, metropoli, irrazionalità, alienazione...
Almeno per i primi tempi la piena identificazione dell'arte con il fascismo è errata. Solo nel decennio successivo la propaganda capirà il potenziale immaginifico ad esempio dell'architettura, dell'illustrazione, della pittura muraria, del cinema. Artisti, gruppi, movimenti infervorano e le cose succedono. Nel 1919 Giorgio de Chirico si trasferisce a Roma ed espone a Casa Bragaglia beccandosi la stroncatura di Roberto Longhi; viaggio opposto per Sironi, chiamato a Milano dall'effervescenza del salotto di Margherita Sarfatti che già sta pensando a una pittura più tradizionale proprio mentre le intemperie del Futurismo sembrano placarsi dieci anni dopo il primo Manifesto (eppure Marinetti continua a dirsi anticlericale, antimonarchico e antiparlamentare) a favore di una capillare diffusione regionalistica da nord a sud. Si pubblicano riviste, con in testa Valori plastici, si moltiplicano convegni, l'editoria è fiorente e raffinata, gli intellettuali partecipano attivamente alla vita del Paese, il che non significa intervenire su temi di cronaca, bensì mostrare una visione e una strategia. Prima della marcia su Roma, nel 1922, la Biennale di Venezia dedica una retrospettiva all'«arte negra», mentre nel 1923 il Duce in persona inaugura alla Galleria Pesaro la mostra di sette pittori del Novecento.
Gli intellettuali, peraltro, vanno dove tira il vento. Impossibile non dirsi fascisti, ciascuno a suo modo parafrasando Pirandello, così come dopo fu impossibile non dirsi comunisti o comunque di sinistra. Nel '25 proprio lo scrittore siciliano firma il manifesto degli intellettuali fascisti, redatto da Giovanni Gentile, con Malaparte e Ungaretti, mentre Marinetti dedica Futurismo e fascismo «al caro amico Benito Mussolini». Nel 1926 una donna italiana, Grazia Deledda, vince il Nobel, la nostra arte piace molto oltralpe, a Parigi le gallerie sono piene dei dipinti di de Pisis, de Chirico, Savinio, Severini. Almeno tre correnti convivono negli anni Venti: Futurismo, Novecento (e in generale tutta la figurazione, contemplando Realismo magico e Valori Plastici), Astrattismo. Senza contare quelli che vanno da soli, senza una precisa collocazione, e non sono pochi. Ha ancora senso, dunque, chiamarla età dell'incertezza? E se così fosse, ne avremmo bisogno un po' oggi, in tempi in cui l'arte e la cultura italiane producono con il contagocce.
I nomi importanti in questa mostra ci sono tutti. Soffermiamoci piuttosto sugli artisti «di nicchia» la cui riemersione potrebbe far pensare a qualche collezionista illuminato che questo nostro Novecento di seconda fila vale tanto e costa troppo poco. Cominciando dal siciliano Pippo Rizzo, «pittore viaggiante», autore dello strepitoso - certo autobiografico - Il nomade (1928) in cui tracce di Futurismo si combinano con una più marcata figurazione. E, restando in Sicilia, una delle poche donne in mostra è Lia Pasqualino Noto con L'infermiera del '31. Curiosa la figura di Sexto Canegallo, ligure di Sestri, più simbolista che futurista, certo attraversato da inquietudini psicanalitiche. Il sempre sorprendente Aroldo Bonzagni, ferrarese, seppur più in un quadro particolarmente descrittivo, Rifiuti dell'umanità, punta il dito sull'amaro destino dei reduci di guerra. Erotismo, lascivia, peccato nei nudi in piedi del romano Ferruccio Ferrazzi o nelle visioni da boudoir philosophique di Ruggero Alfredo Michahelles, pittore fiorentino che si firmava Ram.
Nulla o quasi di esplicitamente celebrativo, negli anni Venti.
Perché l'arte si trasformi in pura arma propagandistica bisognerà aspettare il successivo decennio, e le stesse raffigurazioni del Duce opera di Adolfo Wildt e del futurista Thayaht risultano prima di tutto interessanti sperimentazioni plastiche.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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