"Isis Tomorrow" scopre la cupa eredità integralista sotto le ceneri di Mosul

Il documentario di Mannocchi e Romenzi racconta (senza pregiudizi) i bambini del terrore

"Isis Tomorrow" scopre  la cupa eredità integralista sotto le ceneri di Mosul

Avete sempre diviso il mondo (islamico) in buoni e cattivi? Cedete alla semplificazione di separare moralmente i valorosi soldati iracheni dai tagliagole jihadisti dell'Isis? Nessuno può biasimarvi. Però forse è utile, per una volta, spogliarsi di qualche (pre)giudizio, fare lo sforzo di indossare una solida corazza emotiva (quello a cui state per assistere non è per nulla conciliante), e andare a vedere il documentario passato ieri fuori concorso a Venezia (e nelle sale da settembre e poi sulla Rai) Isis Tomorrow, sottotitolo The Lost Souls of Mosul, della giornalista Francesca Mannocchi e del fotografo Alessio Romenzi. Un anno e mezzo di lavoro, dieci viaggi in Iraq, 70 ore di girato per 80 minuti di film finito, è un'inchiesta che racconta la città martoriata di Mosul (caduta in mano allo Stato islamico nel 2014) subito dopo la liberazione da parte delle forze dell'esercito iracheno nel luglio 2017. Ma, ecco la forza scardinante del documentario, guardando alla tragedia dal punto di vista dei «figli dell'Isis», e delle loro madri, ossia i ragazzini - di dieci, quattordici, sedici anni reclutati, ideologizzati e addestrati al martirio dai miliziani del Da'esh. Sono loro i cuccioli del Califfato - l'arma più potente nelle mani dello jihadismo, perché saranno loro, educati alla violenza e alla vendetta, a portare alte in futuro le bandiere nere dello Stato islamico. Che ora appare confitto ma che da proprio loro trarrà la forza domani.«Non abbiamo voluto mostrare i bambini e le donne soltanto come vittime costrette dai padri e dai mariti a combattere per l'Isis, ma abbiamo accettato una sfida più difficile», hanno raccontato i due registi ieri dopo la proiezione. «Quella di provare a umanizzare i colpevoli». Ci può essere pietà per un kamikaze? Difficile rispondere... «Non è facile ammetterlo: ma davanti a vedove orgogliose di essere affiliate all'Isis, fedeli ai loro uomini che hanno ucciso soldati e civili, e che ora sono reiette e isolate dentro i campi di riabilitazione di Mosul, io ho provato empatia per il loro dolore», confessa Francesca Mannocchi.

La domanda è: sarà in grado l'Iraq di accettare i figli dell'Isis, l'arsenale più pericoloso lasciato dietro di sé dal Califfato, e di perdonare le loro madri? Sarà possibile riconciliare le due anime del Paese: l'anima eroica dei buoni e l'anima nera dei terroristi? La risposta è un'ora e venti minuti di rapimenti, suicidi, torture, campi di addestramento, fame, amputazioni e un odio reciproco insuperabile. Da una parte i soldati dell'esercito regolare e gli ufficiali dei Servizi segreti che spiegano come un bambino di otto anni con un fucile messogli in mano dall'Isis è un nemico come tanti. «Gli spari in testa. E più ne uccidi oggi, meno nemici avrai di fronte domani». Dall'altra un ragazzino senza una gamba, figlio di un guerrigliero jihadista, che proclama, con una lucidità argomentativa che va oltre la pura ideologizzazione, coma la sua unica prospettiva di vita sia il martirio: «Ogni occidentale ucciso dalle nostre bombe è una benedizione di Allah». La violenza come unica risposta alla violenza. Da una parte terroristi da eliminare, dall'altra infedeli da sterminare. Per entrambi vale la stesa formula: «Allah sa perché ti odio». Come si risale dall'abisso?

Attenzione. Il documentario è duro, svela una faccia diversa dell'islamismo, ed è impietoso e non fa sconti. Ma non cadete nell'equivoco. Qui non c'è spazio per la polemica. Nessuno dica: è un film che vuole provare a «giustificare» chi ha accolto nell'anima, offrendogli il corpo, la follia jihadista. Non c'è alcuna legittimazione, perdono o discolpa. Solo l'angoscia di vedere in faccia, dietro uno hijab o una maschera di polvere, i visi di donne e di bambini che ora sono dei vinti condannati a sopravvivere ghettizzati in casa dei loro vincitori. Madri, come le nostre, e figli, come i nostri. Non più semplici vittime o colpevoli, ma cosa molta più complessa e sfumata - esseri umani.

Per il resto, quello che rimane è un'infinita disperazione. Cioè, appunto, la mancanza di ogni speranza.

«L'Isis non è sparito, risorgerà con un altro nome, e le perdite territoriali sono insignificanti di fronte a un'ideologia che invece mantiene tutta la sua forza», ammette Alessio Romenzi, che il mondo islamico lo conosce bene.

Dopo il sangue della battaglia rimane solo lo spazio alla vendetta. Ecco l'Isis di domani. Ecco l'aspetto più lancinante di un documentario sconvolgente.

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