Le motivazioni con le quali l'Accademica di Svezia assegna il Nobel per la Letteratura spesso sono così generiche da apparire insignificanti. Nel caso di Kazuo Ishiguro, vincitore nel 2017, furono: «La forza emotiva della sua scrittura e la maestria nello svelare il nostro illusorio senso di connessione con il resto del mondo». Molto più interessanti, invece, sono i discorsi tenuti dagli scrittori al momento del conferimento del premio (tra i più alti, forse, quelli di Eugenio Montale e Iosif Brodskij). Quello di Kazuo Ishiguro, britannico di origine giapponese, è stato ora tradotto da Einaudi col titolo La mia sera del Ventesimo secolo e altre piccole svolte (pagg. 36, euro 9). E vale la pena leggerlo. Si spendono cinque-sei minuti ma si guadagnano molti spunti di riflessione.
Di fatto, la prolusione si può dividere in due parti. La seconda, più retorica, è una sorta di appello agli «intellettuali di buona volontà» («In un'epoca di divisioni che crescono pericolosamente, è necessario che ci mettiamo in ascolto. La buona scrittura e i buoni lettori abbatteranno le barriere. Potremo perfino scoprire un'idea nuova, un progetto di grande umanità intorno a cui ritrovarci»). E va bene. La prima, invece, è molto più originale: attraverso il racconto della sua giovinezza, l'arrivo in Inghilterra (nel Surrey, a cinque anni), il suo essere un giapponese che acquisisce le «buone maniere di un ragazzo educato della media borghesia inglese», integrandosi in un altro Paese mentre i suoi genitori continuano a sentirsi ospiti, e soprattutto ricostruendo le «svolte» della sua carriera e psicanalizzando il passaggio dai primi racconti di ambientazione giapponese a un romanzo percepito da tutti come di «una inglesità assoluta» (Quel che resta del giorno), Kazuo Ishiguro ci dà una straordinaria lezione su come nasce e come si trasforma la scrittura.
«Grandi e splendide industrie si ergono intorno alle storie. Editoria, cinema, televisione, teatro. Ma alla fine, tutto si risolve in una persona che dice a un'altra: Questo è ciò che sento io. Riesci a capire quello che dico? È lo stesso anche per te?».
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