Kemeny, vita e Azione di un poeta armato

Budapest, la boxe, il Mitomodernismo: l'epopea di un ribelle che prende a pugni il conformismo

Kemeny, vita e Azione di un poeta armato

«Fight for Beauty!». «Fight for Beauty!». «Fight for Beauty!».

Qual è il compito del Poeta?

L'avrà ripetuto mille volte, nella sua tonitruante avventura di scrittore: «Combatti per la Bellezza!». Che è la sposa del Bene, e la sorella della Verità.

Tomaso Kemeny: una delle voci più extravaganti della poesia italiana, lui che è ungherese di nascita, cittadino milanese, arista poliedrico e intellettuale poliglotta, oltre che traduttore europeo. Parla italiano, magiaro, inglese, francese, spagnolo, tedesco («E un po' di finlandese...»).

Cos'è la Poesia? Per Tomaso Kemeny è la rivelazione dell'energia interiore, quella dell'anima. «Hai mai notato? Gli accenti tonici del verso poetico richiamano il battito cardiaco del cosmo». La Poesia è fatta di parole ma con una forza che ti congiunge all'Universo, all'Essere e non all'Apparire.

Mentre la prosa è una maschera, la poesia è un volto nudo.

«Giù la maschera!» gli diceva André Breton, che Tomaso conobbe in Costa Azzurra, nel '62: «Ero lì per imparare il francese, stavo seduto su una panchina a leggere Verlaine, quando un signore - lui - si siede accanto e mi dice: Ma allora qualcuno legge ancora Verlaine!. E io: Sì, certo: ogni sua rima è una rivelazione. E da quel giorno mi portò alle riunioni coi suoi amici, c'era anche Louis Aragon, che aveva due amanti alla volta, biondissime, bellissime... E mi diceva: Petit Tomàs... perché non ne prendi una tu, e alleggerisci le loro voglie folli?».

Folle, inimitabile, convinto che non esista civiltà senza poesia, e viceversa, oggi il poeta Tomaso Kemeny ha deciso per una volta di darsi alla prosa, che da neosurrealista ha sempre considerato una forma degenerata. E così ha scritto - alla sua maniera: funambolica, epica, romanzesca - la propria autobiografia. L'ha intitolata Per il lobo d'oro (Effigie) ed è dedicata a un libraio della Milano di ieri, che aveva il negozio in piazza Piola: Michele Morale, personaggio tanto grande quanto sconosciuto. «Non era un mercante, ma un consigliere. Quando andavo da lui mi diceva Leggi questo, Lascia stare quello. Lo chiamavo lobo d'oro perché aveva dei padiglioni auricolari enormi. Gli chiedevo di farmeli toccare, ma lui si negava: Professore, se Lei fosse una bella ragazza, magari. Ma così, no.... Ma non c'era nulla di erotico. Anche Napoleone amava toccare i lobi. Ma Lei non è Napoleone, Professore..., mi diceva».

Eppure anche Kemeny - che oggi ha 82 anni e ancora indossa la divisa da ufficiale ussaro - ha avuto la sua epopea. È nato, col nome di Tamàs, poi diventato Tomaso, a Budapest, nel '38. Il padre morì eroe in guerra. Lo zio, col suo stesso nome, si era già suicidato nel '20 quando vide il fallimento della Rivoluzione russa. Tomaso ha fatto in tempo invece ad ascoltare gli orrori dell'occupazione sovietica (che a Mosca chiamavano liberazione...). «Se i tedeschi erano il Male, i russi furono peggio. Violentavano, rapivano, rubavano, impiccavano». E così a dieci anni smise di respirare la brezza che increspa il Danubio e da Pest, dove viveva come un ragazzo della via Pál, si trasferì con la famiglia a Milano. Liceo classico al «Carducci», laurea in Lettere e letterature straniere, borsa di studio a Chicago, dove impara l'inglese (che ha insegnato a lungo all'Università di Pavia) e l'arte della boxe. «Ero un Peso medio, nome di battaglia Absolute Tiger. Quattro incontri vinti per ko. Poi al quinto ne ho prese così tante che ho preferito la poesia».

«Tyger Tyger, burning bright/ In the forests of the night». Poeti prediletti: William Blake, Dylan Thomas, Yeats, Pound, Byron («L'uomo più libero che abbia mai incontrato»), Christopher Marlowe («Il suo è l'inglese più musicale abbia mai letto»). Li ha amati, studiati, tradotti, insegnati.

Intanto Tomàs-Tomaso da lontano osserva i fatti del '56 nella sua Ungheria, quando di nuovo «la cricca stalinista stupra la terra magiara». Mentre in Italia scrive: pubblica poesie e poemetti, da Il guanto del sicario, 1976 («Ma sulla riva ci intrecciammo nel guanto del sicario/ e avvizzimmo nel gorgoglio con i coni dalle assi d'amianto») a La Transilvania Liberata, del 2005. E sempre vivendo la Poesia come Azione, secondo il dettato che vuole «l'artista armato» combattere per l'Arte e la Bellezza. Nel 1994 occupazione della chiesa di Santa Croce a Firenze, conclusa con la lettura dei Sepolcri del Foscolo. Nel '95 fondazione con Giuseppe Conte e Stefano Zecchi del Movimento Mitomodernista, in una guerresca giornata al Teatro Filodrammatici di Milano al grido di «Fight for Beauty!». Fino alla «presa» del Colle dell'Infinito leopardiano a Recanati, 17 marzo 2011, celebrazioni dell'unità d'Italia...

Dicevano che il Mitomodernismo fosse di Destra... «Non sono né di destra né di sinistra, ma libertario. Anzi, libero pensatore per quel poco che riesco a pensare. Tutte le tendenze plebee, il fascismo come il comunismo, servono a fregare il popolo».

Tomaso, invece, uscendo dalla pagina scritta per riportare la Poesia nel mondo, al popolo regala versi.

Come il 6 dicembre di qualche anno fa, quando in piazza della Borsa a Milano, plateale gesto contro la deificazione del denaro, donò poesie alla gente che passava di lì. Si davano di gomito ridendo, ma poi si portavamo a casa i foglietti.

Ed è tutto vero, anche se romanzesco.

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