Cultura e Spettacoli

"Kobe: una storia italiana", aneddoti sull’abnegazione al sogno di un campione

Il documentario da oggi su Amazon Prime Video racconta l’incipit di un’esistenza che sarà consacrata poi al mito, ricordando chi era il Kobe Briant bambino nella provincia italiana

"Kobe: una storia italiana", aneddoti sull’abnegazione al sogno di un campione

Su Amazon Prime Video arriva il documentario Kobe: Una storia italiana, sugli anni vissuti dalla stella dell’NBA Kobe Briant nel Belpaese.

L’anticipazione prima dei titoli di testa, tra esternazioni di chi ha intervistato Kobe appena una volta o lo ha incontrato da bambino, non colpisce particolarmente ma dà l’idea di quel che seguirà: un mosaico di ricordi raccontati da figure di contorno ma fondamentali, come la maestra delle elementari o il primo allenatore.

Tutto si concentra su come l’infanzia e preadolescenza italiane di Kobe Briant siano state formative per la sua cavalcata verso il successo. A onor del vero, si tratta di anni già ripercorsi in diversi servizi televisivi subito dopo la morte di lui e della figlia nel Gennaio 2020. Naturalmente l’effetto all’epoca era amplificato dal sentimento di lutto collettivo. Il documentario fa invece la scelta particolare di non parlare della tragica conclusione della favola del giovane, se non ricordandola nei titoli di coda.

Si respira l’orgoglio della provincia italiana di aver dato a un futuro campione la serenità e i valori necessari a porre le fondamenta di un sogno che diventerà realtà. L’essere cresciuto in un ambiente sano e accudente, a dimensione d’uomo come il paesino pistoiese di neanche 700 abitanti, ha fatto la differenza.

Kobe, già allora, si distingueva dai coetanei non tanto per le capacità atletiche, quanto per l’avere in testa e nel cuore un obiettivo che sarebbe poi diventato vera ossessione: vivere per la pallacanestro.

Fin da ragazzino Kobe si è allenato come nessuno e poi, crescendo, ha preso a studiare i punti deboli degli avversari, il loro stile di gioco e addirittura a rivedere le azioni chiave di una partita durante l’intervallo.

Determinazione feroce e capacità di sacrificio da sole non sarebbero però bastate. La tesi non troppo velata di “Kobe: una storia italiana” è che la chiave del successo sia stata l’avvicinarsi alla pallacanestro attraverso il metodo insegnato da noi piuttosto che come fanno oltreoceano. A quanto pare in Italia il lavoro è incentrato sui fondamentali teorici e solo dopo si punta sulle qualità atletiche, mentre in Usa è l’opposto.

Senz’altro interessante il racconto di una compagna di giochi di Kobe che, una volta adulta, è diventata psicologa e ha avuto modo di confrontarsi con lui su temi come felicità e senso della vita. A lei si deve uno spaccato non scontato del grande campione e della sua percezione di vivere una realtà alterata dalla fama negli States.

Detto ciò, stupisce che “Kobe: una storia italiana” non commuova granché. Perfino la lettera di addio allo sport che diede vita al corto premiato con l’Oscar nel 2018, letta a staffetta dagli amici di un tempo, appare smorzata. Una scelta stilistica, quella della sobrietà, meritevole in linea teorica ma che poi, a livello di messa in scena, ridimensiona l’impatto struggente di quanto narrato.

Non bastano le immagini di Kobe bambino e ragazzino o sporadici aneddoti per rendere giustizia all’essere umano dietro al campione. Se si voleva dare la dimensione del rapporto di un uomo con il suo essere leggenda, la reunion di compaesani che sembrano raccontare ricordi al bar non sembra lasciare il segno.

Difficile poi pensare che un’opera che poco allude alle imprese transoceaniche di Kobe o che accenna a concetti come “Mamba mentality” senza spiegarne il significato, abbia come obiettivo qualcosa in più o di diverso del mero fan service.

Sicuramente fa piacere trascorrere un po’ di tempo ricordando una figura d’ispirazione, ma in termini di stile e di potenza emotiva si sarebbe potuto osare di più.

“Kobe: una storia italiana” non ha né la magia per conquistare chi non sia già a conoscenza della leggenda di Briant, né il dono di presentare dettagli inediti a chi già ne sia estimatore.

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