Tre settimane fa, lo stucchevole rito del «chi sono i favoriti per il Nobel per la Letteratura», con tanto di dritte dei bookmakers, come se si trattasse di un qualsiasi torneo Atp per pallettari o di un qualsiasi Cesena-Sambenedettese, aveva chiamato in causa anche lo scrittore ungherese László Krasznahorkai. Lo hanno infilato in un mazzetto che comprendeva due firme più volte considerate papabili: la canadese Margaret Atwood e il giapponese Murakami Haruki. Poi, ovviamente, il Nobel è andato altrove, a metà strada fra Tanzania e Regno Unito, finendo tra le mani di Abdulrazak Gurnah.
Se abbiamo capito qualcosa di Krasznahorkai leggendo la quadrilogia che lui considera il suo «unico libro», cioè Satantango, Melancolia della resistenza, Guerra e guerra e Il ritorno del barone Wenckheim, ci viene da pensare che alla (non) notizia della bocciatura avrà alzato impercettibilmente uno o entrambi i sopraccigli chiedendosi chi fosse quel suo collega, e poi abbia sciorinato un sorriso-non sorriso da uomo saggio, dunque privo di presunzione e di spirito competitivo. Certo, trattandosi di un ungherese, la chiave di lettura più semplice e scontata per interpretare le sue opere è la caricatura dell'ottusità, foriera di auto-dissoluzione, di ogni dittatura, in questo caso quella comunista. Ma non parlategli di politica. «Trovo la politica ripugnante. Non sono in grado di seguire un sistema di pensiero focalizzato su un solo aspetto dell'uomo: i suoi interessi», ha dichiarato in un'intervista. Infatti, nei libri sopra citati non ci sono messaggi, bensì autopsie di menti sconfitte. E «Sconfitta. Manicomio come rifugio» è il loro titolo complessivo che l'autore propone. Insomma, si tratta di un'estetica del brutto, perché brutti sono i vinti, i malati, i perversi, i maniaci, i matti che popolano quelle pagine, eppure estetico è l'occhio di chi li guarda.
Ma Krasznahorkai, essendo un artista, frequenta anche l'estetica propriamente detta, cioè la fruizione e lo studio del bello. Un bello che diventa addirittura sublime, proprio nel senso messo a tema dal Trattato del sublime del I secolo dopo Cristo, cioè quella retorica elevata dell'arte che non si limita ad affascinare con la superficie delle forme, ma, per così dire, mette le mani nel sangue allo spettatore, lo sconvolge, lo ossessiona, lo schiavizza. Seiobo è discesa quaggiù, una raccolta di racconti-saggi proposta da oggi per la prima volta in italiano (Bompiani, pagg. 513, euro 28, traduzione di Dóra Várnai), è un percorso quasi dantesco nel paradisiaco inferno del bello sublime e subliminale che s'incista sotto l'epidermide delle coscienze. Si parte dall'istante eternizzato dell'uccello Oshirosagi a caccia nel fiume Kamo, in Giappone: immobile come una statua, rigoroso come un rito. Siamo a Kyoto, «la Città Infinita del Comportamento, il Tribunale dei Condannati alla Buona Condotta, il Paradiso dell'Obbedienza, il Penitenziario della Disobbedienza». Non a caso, c'è molto Giappone, in queste storie: la traslazione della statua di un Buddha da un tempio al museo dove verrà restaurata; il maniacale perfezionismo di un artigiano che intaglia maschere per il teatro No; la concentrazione estatica di un attore del teatro No; la periodica, protocollare fino allo sfinimento ricostruzione del santuario di Ise («il nuovo edificio è lo stesso del vecchio, e lo è perché la divinità che ci vive, Amaterasu Omikami, è la stessa»); l'esilio sull'isola di Sado di Zeami Motokiyo, che del teatro No, in cui il vero testo è l'interpretazione che ne dà lo spettatore, è considerato il fondatore.
Ma se nella cultura giapponese l'arte è quanto di più illiberale si possa immaginare, retta com'è dalla dittatura dei tempi e dei modi immutabili lungo i secoli, anche altrove troviamo esempi di quanto l'arte possa essere coercitiva, assolutista. Ad esempio in Filippino Lippi che lavora a La regina Vashti che lascia il palazzo reale; nella fatica mai pacificata del restauratore Egidio Arlango sul Cristo morto della Scuola di San Rocco, a Venezia; nell'impossibilità di replicare, da parte di chi le copia, l'incanto che suscitano le icone russe di Andrej Rublëv; nel dilazionare, meditare, rielaborare del Perugino alle prese con la metafisica Pala Tezi. E nella figura fra tutte la più umana di questa galleria dei sommersi e mai salvati dalla potenza del Bello: il custode del Louvre che vive una storia d'amore impossibile con la Venere di Milo.
Infine, nell'incomprensibile, aliena perfezione dell'Alhambra di Granada: «Perché non sapere qualcosa è un processo complicato, la cui storia si svolge all'ombra della verità».Così Krasznahorkai, cesellatore di tanti maledetti, ci conduce a visitare il sublime maledettismo dell'arte. No, decisamente oggi il premio Nobel per la letteratura non si addice a un Romantico.
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