Cultura e Spettacoli

L'«altro» Evola fra Zolla, Moravia e i guénoniani

Luca Gallesi

Un aiuto a conoscere meglio la vita e l'opera di Evola ci viene da un volume appena pubblicato dall'editore cattolico Cantagalli, La folgore di Apollo (pagg. 356, euro 20), di Roberto Melchionda, che aveva già firmato un altro importante studio sul teorico dell'individuo assoluto, Il volto di Dioniso. Giovanissimo reduce della Rsi, Melchionda conobbe personalmente Evola nel 1951, al processo contro i Far (Fasci d'azione rivoluzionaria), nel quale vennero coinvolti altri futuri giornalisti e intellettuali del calibro di Enzo Erra, Fausto Gianfranceschi ed Egidio Sterpa.

La filosofia di Evola, come sottolinea Marcello Veneziani nell'introduzione, è il filo rosso che lega tutte le fasi della sua vita, da quella artistica a quella magica, dalla sua attività di traduttore a quella di scrittore e studioso, che De Felice definì «mistico spengleriano». Ad arricchire, e alleggerire, il libro c'è una ricca appendice epistolare, con il carteggio tra l'autore e lo studioso cattolico Gian Franco Lami, e alcune lettere di Evola stesso a Melchionda, che danno un quadro del «filosofo proibito» molto lontano da quello algido che ci offrono i suoi libri. Tra le persone citate nella corrispondenza figura anche Elémire Zolla, «venuto un paio di volte a trovarmi», frequentazione che Zolla nascose accuratamente, nonostante le innegabili affinità di interessi coltivati e autori frequentati. Su Moravia, che Evola ha avuto occasione di seguire nel precedente periodo, «vi è un forte sospetto che la sua pornografia sia un mero prodotto di compensazione», dato che «quando vedeva che una ragazza era pronta a far sul serio con lui, quasi aveva angoscia». E, infine, liquida «il gruppetto torinese custode geloso dell'ortodossia guénoniana», che pubblicava la Rivista di Studi Tradizionali, come dei «giovani, sembra che uno sia il figlio di un personaggio della Fiat, ed è il finanziatore, che di Guénon non sanno che attraverso i libri».

Già, perché l'erudizione, al pari dell'intelligenza e l'ingegno, può essere dannosa: «Quando la si usa male conclude il Barone - è meglio non averla», soprattutto «quando tutto si riduce a quella più o meno brillante stupidità intelligente di cui esistono esempi numerosissimi e perspicui».

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