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L’assurdo Allen incontra il tragico Polanski

L’assurdo Allen incontra il tragico Polanski

Tanto la vita per Woody Allen è assurda, tanto per Roman Polanski è tragica. I due film che ieri al Festival di Cannes le hanno messe a confronto, quello di Robert B. Weide per il primo, di Laurent Boureau per il secondo, lo testimoniano sin dal titolo. Un documentario si chiama l’omaggio al regista di Manhattan, A film memoir, ovvero una testimonianza e insieme un ricordo, recita quello dedicato all’autore del Pianista. Il discrimine fra l’assurdo e il tragico è anche in un elemento privato e all’apparenza secondario: Woody che si innamora della propria figlia adottiva, Roman che va a letto con una minorenne e viene accusato di violenza carnale. Da un lato c’è un matrimonio più o meno riparatore, dall’altro un arresto, poi una fuga, ancora un arresto, un’estradizione mancata, un incubo che dura da più di trent’anni. Costruiti con l’aiuto dei diretti interessati, i due omaggi abbondano in materiale inedito e d’archivio, interviste, testimonianze di familiari e amici. Pressoché coetanei, la tragicità del vivere sembra aver donato a Polanski un particolare filtro della giovinezza, quasi a compensarlo di ciò che andava infliggendogli (il ghetto di Cracovia, la deportazione e la morte della madre, l’assassinio della moglie Sharon Tate, avvenuto con modalità che fanno sfigurare qualsiasi film dell’orrore); quanto a Allen, il tempo non è stato clemente, lasciandogli però intatta quella particolare forma di giovinezza artistica che non solo ne fa il regista più prolifico degli Stati Uniti, ma uno dei più attivi al mondo, in media un film l’anno. «Ho pensato che puntando sulla quantità, prima o poi avrei azzeccato il colpo vincente» dice sorridendo.
Polanski è un regista tipicamente europeo, così come Allen è il più europeo dei registi statunitensi. L’uno è ossessionato dal desiderio di raccontare e quindi di esistere attraverso la testimonianza, l’altro è vittima di quella nevrosi che coglie chi, senza radici, non ha però alcun puntello cui far reggere la propria costruzione intellettuale. «Fin da ragazzo, quando ho appreso che tutti, anche io, prima o poi saremmo morti, il mio istinto è sempre stato quello di non accettare le regole del gioco» dice a un certo punto. Polanski le ha invece talmente introiettate da cercare di dare a quelle regole un’altra logica, misteriosa, esorcizzatrice. Come spesso accade per pellicole del genere, il meglio sta nell’infanzia e nella giovinezza di chi ancora non sa che gli arriderà il successo. Le prime prove, le sperimentazioni, le incertezze e i sogni.

«Fra me e la grandezza c’ero soltanto io» ironizza ancora Allen, mentre in Polanski si avverte l’ansia di bruciare le tappe e lasciarsi dietro un incubo sempre in agguato.
SS

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