L' "Inclusività" tiranneggia il Lingotto a colpi di asterisco

A partire dai libri per bambini le questioni di genere o del "diverso" sono un mantra che sfiora il ridicolo

L' "Inclusività" tiranneggia il Lingotto a colpi di asterisco

Torino. Oltre alla parola «sostenibilità», pronunciata talmente tante volte che ormai nessuno sa neanche più che cosa voglia dire, il sostantivo astratto più maneggiato durante gli incontri di Torino è «inclusione». Serpeggia la Sindrome dell'Inclusione. A corollario dell'inclusione c'è la «diversità», sulla base del concetto per cui nessuno dev'essere diverso dagli altri, ma tutti si devono adeguare a un canone stabilito dagli Inclusori stessi.

Qualche esempio. La Mondadori ha presentato l'altro ieri un libro la cui autrice spiegava come «le leggi, che cercano di includere e integrare, vengono messe in discussione in un Paese in cui i diritti civili e sociali sono costantemente sotto attacco». Questo nello spazio dedicato ai bambini, chiamato Arena Bookstock, un territorio seminato di tutti i nuovi cliché che si ritiene le nuovissime generazioni debbano assimilare prima ancora di imparare a scrivere. Un bombardamento continuo. A partire dall'incontro Piccol* femminist* crescono, scritto proprio così, con questa demenziale trovata dell'asterisco a sostituire i generi, nel nome appunto di un cosiddetto «linguaggio inclusivo» sostenuto da sociolinguisti militanti come Vera Gheno, pronta a sbarcare oggi in pompa magna, con tutto l'armamentario ideologico.

Andiamo avanti. Ai bambini dai 3 ai 6 anni viene inflitto un seminario così denominato: «Letture per l'inclusione con i libri in simboli della Comunicazione Aumentativa Alternativa». Speriamo che almeno gli insegnanti sappiano di che cosa si parla. Poi veniamo a sapere che esiste una Rete Teatro e Diversità, la quale «accomuna cooperative e associazioni piemontesi che da anni utilizzano il teatro come strumento di inclusione e di empowerment per le persone con differenti abilità». Il che, intendiamoci, va benissimo, ma non potrebbe essere detto con altrettanta efficacia in italiano? Proseguiamo. Parlano le autrici di Una scuola arcobaleno. Dati e strumenti contro l'omotransfobia in classe. Ora, all'ascolto di queste prediche sono condotte scolaresche in esilio coatto. Gli stessi a cui è dedicata la lectio magistralis «È da maschi o da femmine? E se fossimo liberi di essere bambine e bambini, come più ci piace?». Altri vengono costretti a sentire un'omelia su «L'identità di genere raccontata dai ragazzi, per i ragazzi», a cura di un editore che si chiama MIMebù. Si parla del libro di una scrittrice norvegese, Line Baugstø, dove una bambina di 12 anni scopre che la sua migliore compagna di scuola è trans. Ancorché diversi fra gli allievi deportati manifestassero un interesse catatonico, o se ne andassero, l'indottrinamento è continuato in una costellazione di contorsioni verbali, da «unità nella diversità» a «importazione di cultura», fino all' «atto politico e linguistico» della traduzione di cotanto libro scandinavo, destinato a «costruire ponti e abbattere barriere». Segue pubblicità a un podcast che illustrerà quanto coraggio ci voglia per «abbracciare la diversità». Ce ne vuole molto di più per arrivare alla fine di queste euforiche dichiarazioni di coming out ossessivo compulsivo. Teniamo presente che queste operazioni editoriali si avvalgono dei contributi di fondi dell'Unione europea, e sono sempre condotte in parallelo con il sistema scolastico, giusto per avere un pubblico assicurato a cui vendere, insieme ai libri, anche dei gadget mirati. Un piccolo marketing dell'inclusione, diciamo.

Oggi c'è anche una spiegazione di come la traduzione della letteratura straniera diventi una «lezione di accoglienza». Che cosa devono fare gli editori? «Tradurre il linguaggio inclusivo», naturalmente, qualunque cosa questo voglia dire, ma immaginiamo si tratti di testi scritti per esempio in inglese con forme grammaticali, verbali, ortografiche rispondenti a questa nuova griglia di regole, peraltro imposta dall'alto, visto che nessuno nella vita normale parla così. Altri in effetti cominciano a porsi dei dubbi.

Perfino il fantomatico Assessorato ai Diritti della città di Torino, che sostiene una conferenza sul tema della «comunicazione di genere e sul linguaggio non discriminatorio» intitolata «Non si può dire più niente?» In effetti, si può sempre dire tutto, purché sia come lo dicono loro.

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