"L'acqua è memoria e assieme alla scrittura mi ha salvato la vita"

Un'infanzia di abusi, la carriera nel nuoto, l'incontro con Ken Kesey. E un memoir di culto

"L'acqua è memoria e assieme alla scrittura mi ha salvato la vita"

Può sembrare naturale che una ex nuotatrice scriva un libro intitolato La cronologia dell'acqua (nottetempo, pagg. 336, euro 17), ma nel memoir di Lidia Yuknavitch quasi nulla è scontato. Nata in California nel 1963, giovane promessa del nuoto (che poi pratica a livello agonistico in Florida), Lidia Yuknavitch diventa scrittrice in Oregon, a un seminario del leggendario Ken Kesey, in mezzo a compagni come Chuck Palahniuk. Prima, però, ci sono il padre che abusa verbalmente e fisicamente di lei e della sorella adorata, la madre alcolizzata che non le difende, poi la strada dell'autodistruzione fra alcol, sesso, carriere scolastiche e borse di studio bruciate e, a vent'anni, il dolore lacerante per una bimba nata morta, che la immerge in un abisso ancora più oscuro. Almeno fino a che l'acqua, con il suo tempo, riesce a riportarla a galla, e Lidia conosce il nuovo marito (il terzo), il regista Andy Mingo, con il quale ha un figlio, Miles. La cronologia dell'acqua è diventato un libro di culto: per ciò che racconta, e per come lo fa. L'autrice, in Italia in questi giorni, ne parlerà oggi a Firenze (25Hours Hotel, ore 18.30).

Lidia Yuknavitch, come e quando ha deciso di scrivere il suo memoir?

«Non è che abbia proprio deciso: le storie e i ricordi e le immagini hanno iniziato a fuoriuscire da me dopo che mia madre ha scoperto di avere il cancro ed è morta, nello stesso anno in cui è nato mio figlio. Forse questo succede anche ad altri: il dolore, la rabbia, la perdita si riversano fuori da loro. Il libro è stato pubblicato in America nel 2011».

La cronologia dell'acqua è diversa da quella del tempo?

«L'acqua si muove in modo diverso. Se pensiamo a un oceano, il passato e il presente, le cose vive e quelle morte sono sempre in circolo, in onde, gorghi, maree che vanno e vengono, crescono e svaniscono. L'acqua è non lineare, e neanche il tempo lo è, come ci dicono la fisica e l'astrofisica, ma amiamo pensare che esso lo sia, così la vita ci sembra meno spaventosa».

Acqua e linguaggio sono simili?

«Sì, per me acqua e linguaggio sono simili. Sono un quanto: si muovono intorno, nel tempo. Quest'anno ho pubblicato un romanzo, dal titolo Thrust, che è proprio sul moto di narrazione, linguaggio, esistenza e tempo».

Che cos'è l'acqua per lei?

«Per me l'acqua è tutto. Ho imparato a sopravvivere alla mia vita grazie e attraverso l'acqua: prima, da bambina, imparando a nuotare; poi come nuotatrice professionista, un'esperienza che mi ha portato via dalla casa di mio padre, una casa piena di abusi. Nuotare mi ha reso forte fisicamente, mentalmente ed emotivamente: così sono riuscita a sopravvivergli. Mio padre non ha mai imparato a nuotare. Infine, l'acqua è diventata un luogo di meditazione. Come scrittrice, l'acqua è uno spazio metaforico importante: è un simbolo di immaginazione, creatività, desiderio femminile. Si espande. È infinita».

Scrive: «Nell'acqua, come nei libri, puoi abbandonare la tua vita».

«Quando sono nell'acqua, anche solo sotto la pioggia, non importa se sono bella o brutta, grassa o magra, stupida o intelligente, un successo o un fallimento: all'acqua non frega un cazzo. Posso essere, e basta. Un essere umano libero, galleggiante. Non sento il peso di essere una moglie, una donna, una madre, un'amante o una scrittrice perfetta: sono un essere umano, che esiste accanto ad altri animali, piante, elementi».

Come è stata capace di aprire la sua anima e scrivere di esperienze così dolorose?

«Non c'è niente di speciale in me, o nel mio dolore, che va ad unirsi alla storia del dolore di tutte le altre persone... Tutti lottiamo. Se condivido la mia storia, le mie esperienze si uniranno al flusso delle altre storie ed esperienze; insieme, le nostre storie si uniscono in un oceano immenso di narrazioni, che è iniziato prima che io nascessi, e continuerà dopo che sarò morta. La cosa importante non sono io. La cosa importante è lo storytelling. Se stiamo zitti e teniamo le nostre storie dentro, chi ha il potere ci porterà via la nostra vita».

Dice che si può nascere molte volte. Anche portando la morte dentro?

«Tutti portiamo la morte dentro di noi, tutti viviamo e moriamo in ogni istante delle nostre vite. Basta pensare alle cellule della pelle: una continua alternanza di vita/morte, vita/morte, rigenerazione/dissoluzione. L'esperienza che più mi ha illuminato su come quello fra vita e morte sia un moto costante, un moto non lineare, non con un inizio e una fine, è la morte di mia figlia nel giorno in cui è nata. In quel momento, fra le mie braccia avevo la vita e la morte allo stesso tempo. Dopo quell'esperienza, la mia vita è cambiata. Il tempo, e la vita, non sono lineari».

Come ha trovato la forza di avere un altro figlio?

«Grazie a Andy Mingo, dal profondo del mio dolore e della mia perdita ho trovato il filo di un'altra storia di creazione: la storia dell'amore, della trasformazione».

Come si è salvata da tutte le esperienze tragiche e, anche, autodistruttive che ha avuto?

«Immaginazione. Per scegliere la vita serve un salto di immaginazione, serve chiedersi: e se continuo a creare?, e se la mia immaginazione è come un portale?, e se la storia continua, dopo la sofferenza?, e se dobbiamo attraversare il dolore, a volte, per scoprire il passo successivo nella nostra evoluzione?».

Scrivere l'ha salvata?

«Sì, la letteratura, la scrittura e l'arte mi hanno salvato la vita, ma mi hanno anche mostrato come essere utile alle persone».

Ha incontrato un mito come Ken Kesey, ha nuotato al lago di notte con lui...

«Kesey non era perfetto ma aveva una immaginazione fenomenale e uno spirito meraviglioso. Credo che abbiamo legato subito perché entrambi avevamo sperimentato la morte dei nostri figli. Quando l'ho incontrato e ho lavorato con lui ho pensato: Oh, così dev'essere avere un padre amorevole, che crede in te e ti rimanda il messaggio che vali qualcosa, che hai talento, e che sei amato per quello che sei. Mi manca».

Che cosa le hanno insegnato Kesey e Kathy Acker, i suoi «genitori» letterari?

«Mi hanno mostrato che essere un disadattato, o un outsider, è un bel posto dove stare. Se ci si pensa, in ogni forma sono i confini a reggere il centro, a consentire al centro di esistere: c'è bisogno di noi, abbiamo prospettive inusuali, strategie e visioni utili. Kesey e Acker mi hanno adottata come artista senza riserve e, per chi si sente isolato, questo senso di essere visti è qualcosa di profondo».

La sua infanzia ha influenzato la sua scrittura?

«Assolutamente. Da bambina ero terrorizzata continuamente da tutto, così mi sono creata un mondo interiore tramite la mia immaginazione, per nascondermi o stare al sicuro. Questo è il seme della scrittura e dell'arte: essere capaci di immaginare mondi».

Come da bambina, si sente ancora un po' Giovanna d'Arco, «una ragazza con una guerra dentro»?

«Perché sentiva le voci, e io soffrivo di allucinazioni sonore da bambina e da ragazza; perché sperimentava stati di estasi; perché non aveva paura di combattere e morire per le sue idee».

C'è un limite a ciò che può essere detto?

«Oh, sì. Ma quell'ineffabilità è anche bellissima, è uno spazio di possibilità infinite: ed è il tentativo che conta, non il successo o il fallimento, il fatto che ci proviamo».

Che cos'è la memoria? Un tesoro, un fardello, la chiave per la scrittura, un modo per salvarci...?

«La memoria è tutte

queste cose, sì. Ma più di tutto, per me, la memoria è una storia sempre in movimento, che cambia sempre forma, creandosi e distruggendosi e ricreandosi continuamente: è la possibilità, sempre, di trasformarsi. Come l'acqua».

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