E ora vai con il tunza tunza. Techno, house, insomma rave party o più semplicemente rave. Già i rave, quella sorta di festa libera, spesso oceanica, affondata nella musica e abbinata ai significati più diversi e lontani. Gli Stati Uniti ci sono ricascati e ormai il rave program, ossia il calendario di rave, è più fitto di quello di Madonna dal chirurgo estetico. Dovunque. Per qualsiasi sostrato culturale o anagrafico, in una euforia finalmente trasversale e non solo confinata al ghetto. Il rave è una big thing negli Usa, ormai. E quindi tra poco, in quell'inevitabile ping pong di tendenze da una parte all'altra dell'Atlantico, ritornerà ad esserlo anche in Europa, dove, bisogna dirlo, tragedie come la Love Parade di Duisburg del 2010 ha fatto assopire il fenomeno. Ma negli States sono di nuovo pazzi di rave che comunque è da considerarsi, con tutte le dovute proporzioni, una sorta di mini woodstock ultratechno, che ha refoli ideologici, talvolta politici e comunque capaci di segnare la temperatura sociale di una grande quantità di giovani.
Perciò non è un caso che il nome nuovo americano, Porter Robinson, 21 anni, dica come ha appena fatto a Q Magazine, che «metà dei ragazzi americani vorrebbe fare ciò che faccio io». E lo hanno capito pure gli Swedish House Mafia, che sono europei ma negli Usa valgono come una rockstar: due settimane fa all'Hammerstein Ballroom di New York hanno messo in piedi un Black tie rave - letteralmente «con la cravatta nera» - per poche persone con biglietti a cento dollari l'uno. Il rave fa chic, chi l'avrebbe detto. Di certo il merito è (anche) del solito rinascimento musicale.
Spieghiamoci.
I primi rave europei sono serviti da trampolino all'acid house e poi alla jungle e al drum&bass. Per capirci, la mega esplosione della acid in Gran Bretagna del 1988 fu ribattezzata come la seconda Summer of Love per intensità e coinvolgimento di pubblico. Stavolta a far ripartire i rave negli States è la cosiddetta Edm, ossia electronic dance music. In sostanza un germoglio nato dai mixer di Skrillex (un pioniere con Scary monsters and nice sprites del 2010) o Guetta o Tiesto, che adesso è fiorito dappertutto, lanciando nomi nuovi come Steve Aoki o Deadmau5 e, soprattutto, diventando un «brand». L'industria, dalle etichette come la seminale Ministry of Sound fino al product placement di tante multinazionali, si è scatenata. E le popstar, da Lady Gaga a Katy Perry, fanno la fila per avere un remix sin da quando Guetta ha prodotto I gotta feeling dei Black Eyed Peas nel 2009 e ha accatastato ben nove milion di download soltanto negli States. Tutti gli altri si limitano a fare la fila per prendere un biglietto e scatenarsi fino all'alba. D'altronde gli orari sono questi: il rave party non è un dopocena, è un rito che inizia non prima di mezzanotte e talvolta va avanti fino a mezzogiorno. Certo, inutile indagare sulla coscienza (o incoscienza) del pubblico: in Francia nel 2001 un rave party è stato interrotto e la polizia ha arrestato ben settecento spacciatori di droga (non per nulla laggiù il decreto Mariani limita i rave a 250 persone al massimo). In fondo, se non si fa cannibalizzare dalla politica (come nel caso del sindaco di Bologna Cofferati che volle bloccare la Street Rave Parade) questi eventi viaggiano paralleli alla grande informazione, spesso grazie a pubblicità virali o a tam tam sui social network. E' il tipico dna del free party. All'inizio, diciamo primi anni 80, era un aggiornamento della controcultura hippy e inglobava persino punk (a Londra) o antenati dei rapper (zona Detroit soprattutto).
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