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L'annessione di Napoli all'Italia? Ancora divide

Il tema suscita prese di posizioni nette. Tra pure celebrazioni e revisionismo

L'annessione di Napoli all'Italia? Ancora divide

Qualche anno fa, Paolo Mieli mi pose un interrogativo imbarazzante e di non piccola portata. Mi chiedeva perché la storiografia italiana che era riuscita finalmente a fare i conti con questioni tanto laceranti per la coscienza civile del nostro Paese (il fascismo, il conflitto civile del 1943-1945, il lungo e difficile dopoguerra, i terribili «anni di piombo») tardasse ancora a farli con l'allargamento del processo unitario al Mezzogiorno e con l'opposizione (armata e intellettuale) che una parte considerevole delle popolazioni meridionali aveva opposto tra 1860 e 1870 al quel processo. Rispondere a quel quesito, adducendo a scusante la vischiosità dei paradigmi storiografici mi sembra insufficiente, pensando a come, proprio durante le recenti celebrazioni cento cinquantenarie dell'unità d'Italia, la pur doverosa replica alle tesi revisioniste della cosiddetta tendenza neo-borbonica sia stata, in molti casi, quella di celebrare quell'evento senza analizzarlo nel profondo.

È vano soliloquio, infatti, parlare di «lager dei Savoia», di «genocidio del Sud». Ma non dimentichiamo la prigionia dura e infamante alla quale furono sottoposti soldati e ufficiali che avevano lealmente seguito Francesco II di Borbone nell'ultima resistenza e gli spietati metodi di contro-guerriglia, ispirati a quelli sperimentati dall'esercito francese in Algeria, utilizzati dai governi di Torino e di Firenze per spegnere l'insorgenza antiunitaria. Altrettanto stolto è, però, cullarsi nella mitologia risorgimentista del 1860, come «anno dei miracoli», dimenticando colpevolmente o tacendo colpevolmente che per una parte degli Italiani quell'anno fu piuttosto l'«anno orribile» della sconfitta per mano straniera, della perdita della sovranità economica e politica, del peggioramento delle loro condizioni di vita, dell'inizio del linciaggio morale cui li espose un sentimento anti-meridionale di chiaro stampo razzista.

Storiografie di altri popoli hanno affondato il bisturi con rigore scientifico sì ma anche con spietatezza nel loro passato, in quel passato che costituì appunto il prologo drammatico al loro farsi Nazione. Nessuno storico inglese, ormai, si sente legittimato a passare sotto silenzio gli orrori delle guerre anglo-scozzesi del XIV secolo, prolungatisi nelle rivolte giacobite del 1715, del 1719 e del 1746, che portarono, tra lacrime, sangue e fango e una spietata campagna di repressione contro le popolazioni civili, alla nascita e poi al consolidamento del Regno Unito.

Nessun analista del passato statunitense nega il carattere di conflitto intestino della guerra d'indipendenza americana che fu, certo, guerra di liberazione contro la tirannia della madrepatria ma anche scontro fraterno tra americani decisi a rimanere fedeli sudditi della corona britannica e connazionali risoluti a separare i loro destini da quelli della loro terra d'origine. Persino pochi storici russi sono disposti oggi a criminalizzare l'azione dei molti che, restati fedeli alla dinastia dei Romanov, si opposero nella sanguinosa guerra civile, protrattasi dal 1917 al 1922, all'avvento del regime bolscevico.

Anche da noi, in questi ultimi tempi, la situazione sta, però, fortunatamente mutando. Grazie all'attività di alcuni studiosi l'esistenza e la non trascurabile consistenza di un sentimento nazionale napoletano, diffuso, ancora dopo il 1860, non solo tra le masse contadine e il «proletariato straccione» delle città ma anche tra il ceto civile, la classe colta, l'esercito e la burocrazia di quello che era stato il Regno delle Due Sicilie, è divenuto «problema storiografico», in tutta l'ampiezza e dignità di questo termine. Ed è ad approfondire questo problema, e in particolare a mostrare come, tra 1861 e 1870, la «questione napoletana» sia stata argomento che travalicò i confini del Regno d'Italia, fino a imporsi all'attenzione dei Governi, dei Parlamenti, dell'opinione pubblica dei maggiori Stati Europei, che questo mio lavoro è dedicato.

Del resto, anche Croce in un articolo del 1924 riconobbe l'esistenza di un patriottismo napoletano, ben radicato tra «i soldati ligi alla loro bandiera, i politici che volevano serbare all'Italia meridionale l'indipendenza, i cortigiani affezionati alle persone dei sovrani», definendolo un impulso del tutto naturale poiché «il Regno di Napoli non si dissolveva per un moto interno, ma veniva abbattuto da un urto esterno (sia pure dall'urto di una forza italiana), che incontrò consenzienti nel paese, ma anche non pochi dissenzienti e repugnanti».

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