Cultura e Spettacoli

L'arte di Ludwig Pollak, cittadino di Roma

Archeologo, grande cultore dell'antichità e collezionista, trovò nella capitale la sua casa

L'arte di Ludwig Pollak, cittadino di Roma

Era un uomo semplice, non appariscente, visse gran parte della vita a Roma, che amava come solo gli stranieri sanno amarla, a cominciare da Winckelmann e da Goethe, che infatti furono le guide costanti di Ludwig Pollak (1868-1943), ebreo praghese di lingua tedesca, come Kafka, le cui vicissitudini sono ora rievocate da Hans von Trotha in un racconto tesissimo, Le ultime ore di Ludwig Pollak, tradotto da Matteo Galli per Sellerio (pagg. 200, euro 14). Assai presto abbandonò la capitale boema per recarsi a studiare a Vienna, frequentando il seminario di archeologia di Emanuel Loewy, che contribuì all'approdo di Pollak a Roma, che divenne per sempre la sua città. Infatti soffrì molto quando nel 1915 la dovette abbandonare a causa della guerra e fu felice di potervi tornare nel 1919.

La sua Roma fu quella delle biblioteche, dei musei, dei Fori, degli scavi e anche dei mercanti d'arte e degli antiquari. Come ebreo gli era di fatto preclusa la carriera accademica, benché fosse ammirato e consultato dai grandi collezionisti, tra cui J.P. Morgan, il re dei dollari, mecenate e collezionista, che lo trattava con deferenza. Era noto per la sua sterminata cultura classica, rafforzata da viaggi in Grecia e nel Vicino oriente. Quest'uomo così riservato veniva ricercato da collezionisti, da professori e da uomini di cultura di passaggio a Roma, come Richard Strauss, Auguste Rodin. La sua solida professionalità gli consentì, durante gli anni della Prima guerra mondiale, che trascorse in esilio a Vienna, d'incontrare ripetutamente Freud. I due si dovettero intendere. Del resto si sa che Freud era un appassionato collezionista di antichità classiche, anzi viveva se stesso come un archeologo della psiche.

Pollak divenne celebre per il ritrovamento più famoso e più casuale della sua vita. Nel 1905 nei suoi periodici giri d'ispezione nelle varie botteghe antiquarie, da quelle più raffinate ai negozietti più modesti, e perfino ai depositi degli scalpellini che lavoravano per l'ammodernamento della vecchia capitale pontificia, s'imbatté in un braccio marmoreo. Comprese subito che si trattava del braccio destro mancante al gruppo più celebre del mondo classico, il Laocoonte, ritrovato nel 1506 nella Roma di Giulio II e di Michelangelo e trasportato con tutti gli onori in Vaticano, esposto nel Cortile Ottagonale del Museo Pio-Clementino. Dovette essere molto singolare vedere quello straniero traversare la città con quel braccio marmoreo per regalarlo ai Musei Vaticani. Laocoonte era il simbolo più intenso della statuaria antica. Ancor oggi il Cortile Ottagonale è dominato dalla statua, probabilmente di scultori di Rodi, benché alcuni insistano persino a ritenerla opera di Michelangelo per la michelangiolesca potenza dell'espressione. Pollak non condivideva questa attribuzione: Laocoonte è greco, simbolo di quella sublime arte classica.

Il braccio non fu l'unico grande regalo che fece al Vaticano. Ritrovò anche una preziosa icona che era stata trafugata dai Sacri Palazzi. Per questa sua generosità venne ricevuto da papi, cardinali e monsignori. Questo spiega perché in quel drammatico sabato del 16 ottobre 1943 quando le Ss rastrellarono migliaia di ebrei romani - un inviato di Santa Romana Chiesa si recò a Palazzo Odescalchi dove Pollak viveva con la moglie malata e figli per supplicarlo di accettare l'ospitalità vaticana. Un'auto attendeva nelle vicinanze. L'incontro si protrasse per ore, come racconta nella sua biografia romanzata Hans von Trotha. Pollak ebbe occasione di ripercorrere la sua vita, connotata dal suo famoso fiuto nei ritrovamenti archeologici, che gli proveniva da tutti gli anni dedicati con amorevole fedeltà - a libri, scavi e musei. Soprattutto un museo: quello fondato dal barone Giovanni Barracco, suo amico e mentore che lo designò, in punto di morte, conservatore del Museo, che prende il nome dal suo fondatore e che offre ancor oggi una delle raccolte più preziose ed esclusive nella sede rinascimentale della Piccola Farnesina, tra Piazza Navona e Campo de' Fiori. E lì sono conservati i libri e i diari che Pollak tenne per tutta la vita. Da alcuni anni si procede alla loro graduale pubblicazione perché costituiscono una miniera inesauribile di notizie, rappresentando una autentica storia dell'arte classica, scritta sul campo. In realtà lo studioso non pubblicò molto, ma i suoi interventi, sobri e rigorosi, hanno contribuito allo sviluppo delle conoscenze archeologiche a conferma del primato tedesco nella cultura classica del tempo, un primato travolto definitivamente dalla barbarie del Terzo Reich.

Il racconto di von Trotha diventa straziante con la descrizione del rifiuto di mettersi in salvo da parte di Pollak che non si mosse dalla sua abitazione. Si mossero, invece, le squadre delle Ss, incuranti di ogni intervento vaticano. Quel sabato ci fu la retata degli ebrei nel ghetto con altre incursioni come quella a Palazzo Odescalchi per deportare ad Auschwitz un vecchio ebreo di 75 anni con la famiglia.

Un vecchio ebreo che aveva l'orgoglio di firmarsi: Ludwig Pollak von Rom.

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