L'inferno per Testori? Uccidere i propri amori

"Il dio di Roserio" mostra la ricerca del successo come fragile surrogato di una passione proibita

L'inferno per Testori? Uccidere i propri amori

Ci torna dunque tra le mani, edito da Feltrinelli (pagg. 144, euro 8), corredato da una innamorata prefazione di Fabrizio Gifuni, il capolavoro d'esordio di un trentenne Giovanni Testori, Il dio di Roserio, racconto leggendario che Elio Vittorini, pur ben cogliendone la natura eterodossa, il simbolismo quantomai distante, volle pubblicare nel 1954 nella collana-tempio del neorealismo allora dominante, «I gettoni» di Einaudi. Poi il racconto fu inserito con molti emendamenti e spostamenti nella raccolta Il ponte della Ghisolfa, ed è in quella versione impoverita che l'abbiamo perlopiù conosciuto, anni addietro. Felice ritorno, dunque, di un racconto che, alla bella età di sessantaquattro anni, si mostra - oggi forse più di ieri - nella sua forza scandalosa, disturbante.

A nessuno può sfuggire (ma proprio per questo ne parleremo di sfuggita) la capacità dello scrittore di trascolorare completamente in sintassi narrativa un mondo di visioni che non ha nella narrativa la sua sorgente prima. Figurativa è infatti la formazione del longhiano Giovanni Testori, e Il dio di Roserio è senza dubbio un felice museo di arte figurativa del Novecento, a partire dal primo folgorante capitolo, cubista nell'impianto e anche un po' boccioniano (il Boccioni di Città che sale, unico quadro futurista che Testori amasse davvero), dove la discesa di due corpi in bicicletta esibisce un paesaggio in continuo spostamento, un incessante cambio di natura degli stessi oggetti colti in velocità.

Ma la «tecnica» non esiste. L'arte non è mettere insieme dei pezzi, ma piuttosto un centro buio, un buco nero dentro il quale l'universo precipita, producendo ogni volta la propria tecnica. L'artista deve produrre solo questo: il vortice, il tornado, il black hole.

Se Il dio di Roserio fosse un racconto neorealista, tutto stretto (perché altro non ha) intorno al rigore dei fatti, qui ci troveremmo in un punto morto. Due ciclisti dilettanti in fuga, un campioncino (Dante Pessina) e il suo gregario di punta (Sergio Consonni): le punte di diamante della benemerita società Vigor del cav. Todeschi. Ma la soppressa mangiata la sera prima ha tagliato le gambe al Dante e il Sergio, che lo vede in difficoltà, vorrebbe soffiargli la vittoria. Dante lo capisce, anche troppo, il Consonni non gli è simpatico, forse lo teme già da un pezzo, forse interpreta male un ghigno, uno sputo... È questione di un istante. Come sempre, in Testori, tutto il tempo del mondo si stringe in un solo istante. È un atto d'istinto, non del tutto voluto: sta di fatto che con un'improvvisa sterzata il Pessina fa cadere il compagno, che cadendo batte la testa in modo irrimediabile.

Punto debole, s'è detto. Al Pessina non bastava dire al Consonni «vai avanti tu, io sto male, mi ritiro»? La sua immagine ne avrebbe sofferto? Lui manco l'avrebbe ripresa, la gara. Voleva solo dargli una lezione - e perché? Comunque quella crapa dura del manager, il Todeschi, lo obbliga a finire, a vincere, mentre il Consonni viene portato all'ospedale dove la prognosi sarà terribile.

Debole, sì, come pretesto: se la storia fosse solo questa. Uno sgarro sportivo punito con conseguenze eccessive e, poi, la lenta resurrezione del Pessina, che uccide il Consonni dentro di sé più e più volte, per diventare il più forte, l'unico. Se fosse così. Ma non è così. Perché Il dio di Roserio, sei anni prima de L'Arialda, è in realtà la confessione scandalosa di un amore inaccettabile, che si consuma come un rito barbarico, vietato dalle leggi e perciò celebrato in segreto.

Cosa corre, realmente, tra Dante Pessina e Sergio Consonni (vale a dire tra lui e il mondo inteso come società amica, comunità - simbolicamente: la Vigor)? Dopo la tragedia il Consonni sarà sostituito da un'altra giovane promessa, l'Ezio, il Riguttini, e il suo nuovo gregario sarà come quell'altro, perché Dante ha un problema che è soltanto suo. Una pioggia di nomi propri cade addosso al lettore, lo avvolge in un'atmosfera familiare, però il Dante è differente, Dante Pessina è un nome definitivo, uno dei tanti nomi finali di Testori.

Un punto oltre il quale c'è il silenzio. Dei motori, della folla, degli amici, di Dio. Non è, insomma, la storia di un uomo che dopo aver commesso un delitto per rivalità sportiva tiene sotto controllo il senso di colpa, fino a che questo si attutisce, forse scompare (come nel Woody Allen di Match Point). Il dio di Roserio è la storia di un amore proibito, ossia dell'amore. La cosa veramente proibita è lui, l'amore. Che il Pessina si faccia tutte le donne che vuole, ma una delle parole più ricorrenti nel racconto è «mutandine». Il segreto - lo cantava Léo Ferré - è nelle mutande. E il problema sta lì. Nei muscoli, nel sudore, nella bellezza del corpo, nell'azione sportiva che è un'azione erotica ma senza pace perché il successo, gli evviva, sono sempre il sostituto, l'infernale sostituto di qualcosa.

Di cosa? Di lui, del Sergio. E di tutti i Sergio del mondo. Di quello che vogliamo, dell'immagine pur passeggera (un volto, due occhi) nella quale identifichiamo il nostro desiderio senza fine. E, se la radice omosessuale di questo racconto è evidente, la grandezza di Testori non sta tanto nella presunta tecnica narrativa, ma nella capacità di mettere in mostra questo segreto - come fa Bacon, che balugina, anca lü, in alcuni passaggi finali del racconto - come una cosa di tutti, la parte nera di ciascuno, dove i Todeschi di turno premono il Dovere contro il Desiderio, generando scie infinite di violenza e crudeltà, come ricorda Freud ne Il disagio della civiltà.

L'omosessualità, qui, non è «caratteristica» di qualcuno, ma timbro maledetto di un destino comune, di conti che non andranno mai a posto, di una vita tutta sconnessa, che però è quella vera. Disperata e vera. Sapete qual è l'inferno? Leggendo questo racconto lo si capisce bene. L'inferno sono le cose messe a posto. È vero per il Pessina, è vero per tante altre cose.

A posto, a posto!, tante volte sembra che non si faccia altro! Il Pessina, cattivo finché si vuole, cinico, spietato, fa solo (come tutti) quello che può. Deve costruirsi anche lui il suo inferno, come tutti, come tutti noi, giorno per giorno. Ecco, questa è la grandezza di Il dio di Roserio. Che questa versione originale ci ripropone nella sua scandalosa bellezza.

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