L'Italia del Novecento infranse il sogno dell'esotico Grand tour

Accanto agli splendori del passato, gli stranieri videro un Paese moderno. E meno attraente

L'Italia del Novecento infranse il sogno dell'esotico Grand tour

Sulla soglia del Novecento, il viaggio in Italia divenne per gli scrittori più avvertiti e consapevoli un viaggio di seconda mano. Non c'erano più l'estetica meraviglia alla Grand tour, né la sua sistematicità, l'uno e l'altra resi ormai impossibili da un eccesso di memoria e di letteratura, dal raffronto continuo fra passato e presente. Come osserva Attilio Brilli in Gli ultimi viaggiatori (il Mulino, pagg. 320, euro 18), «la vera, produttiva lettura di un paesaggio» nasce allora proprio «dall'intromissione della memoria visiva fra il viaggiatore e la scena che questi si trova dinanzi. In altre parole, il viaggiatore è veramente in grado di osservare il paesaggio italiano solo se ha saputo fare propri i meccanismi selettivi che gli ha offerto il pittore». È, per certi versi, la conferma di quell'aforisma di Oscar Wilde secondo il quale è la natura ad imitare l'arte e non viceversa, il paesaggio goduto come fosse una pittura, un'espressione plastica.

L'occhio è da sempre uno degli strumenti privilegiati del viaggiatore, ma tra la fine del XIX secolo e l'inizio del XX, la seconda grande novità che riguarda il viaggio in Italia è la scomparsa delle Italie a beneficio, ma per molti malauguratamente, di un'unica Italia come nazione, fenomeno che comporta un radicale cambio di prospettiva, l'irruzione sulla scena di un nuovo soggetto, l'italiano, appunto, di cui nessuno sa nulla. Prima, in fondo, era stata tutta una questione di folklore e la decadenza che fra Seicento e Ottocento aveva fatto della penisola un'appendice geografica degli imperi con essa confinanti, un giardino di delizie e insieme «un paradiso abitato da diavoli» (la definizione affibbiata a Napoli si poteva estendere all'intera penisola), aveva portato con sé la fascinazione per la grandezza artistica precedente, con al suo culmine la civiltà rinascimentale, il disprezzo per chi, come un bandito di strada o un mendicante, sulle sue rovine aveva finito con l'accamparsi, quasi ignaro dell'eredità che in sorte gli era toccato di possedere.

Robert Byron, il brillante esteta inglese che negli anni Venti attraversa l'Italia dalle Alpi a Brindisi, non fa altro che condensare in sé, scrive Brilli, proprio questo paradosso, ovvero l'amore dei forestieri per il nostro Paese dovuto all'idea che l'Italia appartenesse a loro «come per diritto di nascita, nello stesso modo in cui le grandi opere d'arte sono patrimonio dell'umanità». La faccia nascosta di questa ammirazione, che è unica, e che non vale per alcun altro Paese al mondo, consisteva, e in parte ancora consiste, nel dare però per scontato e per eterno quello stato di sudditanza plurisecolare prima indicato, e quindi l'ablazione degli italiani, realtà spuria, dall'Italia, realtà eterna. In The Italy of Italians, Eric Reginald Pearce racconta proprio questo, gli italiani visti come unico elemento di disturbo in quella magica terra... Affermazioni, sottolinea Brilli, «che suonano come il certificato d'autenticità di almeno tre secoli di descrizioni dei viaggiatori stranieri i quali, percorrendo in lungo e largo la penisola, hanno sempre fatto di tutto per rimuovere la presenza degli abitanti», dando vita «a una tradizionale, artefatta visione dell'Italia in cui la vita reale degli abitanti è a tal punto subordinata al primato dell'arte e della bellezza, che appare assolutamente insignificante, artificiosamente indenne dai condizionamenti più o meno drammatici della storia».

Il terzo elemento che fa del viaggio nell'Italia novecentesca una novità a petto del passato, è la modernità che intanto ha preso a soffiare fra i suoi archi e le sue colonne, una modernità che già nel 1911 il tedesco Karl Scheffler, in Italien. Tagebuch einer Reise, avverte: «Sembra che città italiane come Padova, nella quale si coglie ancora un vivido riflesso del Medioevo, diventeranno più o meno americanizzate nei prossimi decenni. Ci immaginiamo già il proliferare di industrie e periferie operaie. In Italia questo sviluppo produrrà effetti deleteri a causa del contrasto fra l'antica grazia e la moderna bruttura».

Scheffler si rivela un profeta, ma il suo grido di dolore è qualcosa che quel Novecento agli inizi ha presente nei suoi spiriti più avvertiti, il cambiamento epocale dove un mondo nuovo prende il posto del vecchio mondo. Proprio per le sue caratteristiche, l'Italia assume le caratteristiche di ultima Thule da un lato, la terra dove è ancora possibile confrontarsi con il mito, e di Italoshima dall'altro, il geniale neologismo con cui Ceronetti introdurrà in Albergo Italia la sua meditazione sul Paese della civiltà classica e dell'arte spazzato via, come l'omofona città giapponese, dal vento di una catastrofe nucleare, il turista che ha soppiantato il viaggiatore, le città d'arte come suk e luna park, con i loro centri storici svuotati degli abitanti e consegnati alle banche, ai negozi, ai ristoranti, le sue cento città e i suoi mille paesaggi senza più energia, senza più vita e dove il turismo non è «la presenza di qualcosa, ma la privazione, a pagamento, di tutto».

In Gli ultimi viaggiatori, scritto con la solita competenza e brillantezza che fa del suo autore il miglior esperto italiano in materia, Brilli si chiede se la bellezza non sia stata in fondo per noi un dono fatale e quanto e se, citando Anna Achmatova, l'Italia possa ancora essere «un sogno che continua a riproporsi per il resto della vita», l'italianite come cronica malattia, l'Italia come persistente utopia..

Una risposta che è insieme una speranza, gliela dà un libro straordinario, Le voyage du condottière, di André Suarès, uscito in tre volumi fra gli anni Dieci e gli anni Trenta e poi, morto il suo autore, pubblicato nel dopoguerra e purtroppo da noi mai tradotto. Perché siamo di fronte al libro «più originale e coinvolgente che nel Novecento è stato dedicato all'Italia»? La risposta è nell'assunto che fa lo stesso Suarès: «Il viaggiatore è ancora quello che conta di più nel viaggio. Non si viaggia se non per conquistare o per essere conquistati. Il condottiero sogna sempre di essere conquistato conquistando». Fra Venezia, Firenze, Siena, Suarès costruisce il suo viaggio-percorso-esplorazione-pellegrinaggio come «un'opera d'arte, una creazione, come tutto ciò che conta nella vita. Dalla più umile alla più alta, la creazione testimonia il suo creatore. I paesi sono quello che egli è. Variano con chi li percorre. Non c'è vera conoscenza che in un'opera d'arte. La verità degli storici è un infallibile errore. Chi viaggia per provare delle idee non prova altro che di essere senza vita e senza le virtù per suscitarle. Un uomo viaggia per sentire e per vivere».

Sotto quest'ottica, «l'Italia è il Paese che ha sempre vent'anni» e lo si attraversa come se ci si appresti a una campagna di conquista dove le coordinate spaziali si coniugano a quelle temporali, un viaggio nello spazio e insieme nel tempo che permette al condottiero-viaggiatore «di appartenere a tutte le epoche, perché il colloquio con l'opera

d'arte sfugge ai vincoli della singola epoca e si colloca in un tempo fuori del tempo». Grazie a Suarès, l'immaginazione creatrice salva sempre dal nulla quello che vede e che ama. La sua è un'Italia immaginaria eppure reale.

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