È destino che Giuseppe Verdi e Richard Wagner, i giganti dominatori del teatro in musica nell'800, si spartiscano anche gli anniversari della nascita, essendo ambedue venuti al mondo nel medesimo anno, il 1813. La scelta per la serata d'inaugurazione dell'opera di uno o dell'altro è discrezionale in tutti i Paesi del mondo. Ma non in Italia e in Germania, dove prevale un comprensibile diritto nativo.
I commenti sollevati dal fatto che il cosiddetto massimo teatro italiano, la Scala, apra l'imminente stagione con un'opera di Wagner (Lohengrin), lasciando all'altro festeggiato, Verdi, ribalte successive, pur mitigate dall'annuncio di una ventura Traviata per Sant'Ambrogio 2013, suonano come uno ius violato. Nella contesa fra i musicisti entrò anche una componente nazionalistica e politica, soprattutto dopo l'elevazione di Wagner a musicista di stato nella Germania guglielmina. Le armate del Kaiser si espandevano in Europa come le opere di Wagner conquistavano i maggiori teatri. Non stupisce che il compositore fosse grande ammiratore di Bismarck, così come i suoi discendenti lo furono del Cancelliere-protettore Adolf Hitler (zio Wolf per i nipotini di Richard). L'esecrabile antisemitismo di Wagner scolora davanti al genio del compositore che nessuno (musicista e non) può ignorare. Ma quando alla Scala si mette in un cantuccio Verdi e gli si preferisce il Tedesco, torna in mente la battuta di Woody Allen: a sentire la Walchiria vien voglia di invadere la Polonia.
Per qualcuno il Vate di Bayreuth mantiene alto lo spread, a maggior gloria del Cancelliere del momento (Angela Merkel è wagneriana convinta). Eviteremmo però chi invoca, a titolo di risarcimento, un'opera italiana nel sancta sanctorum del nemico. Verdi a Bayreuth è ipotesi storicamente assurda. Là lo spazio è dedicato solo ad Uno. Però quanto accade è l'eco di diatribe antiche. Già i nostri antenati si accapigliarono sul primato dell'uno o dell'altro, divisi in partiti, pronti a negare valore all'opera dell'avversario, appoggiati, quando non fomentati dall'astuzia degli editori rivali. Verdi era il simbolo di Casa Ricordi. La causa wagneriana era patrocinata da Giovannina Lucca, editrice-virago che lo scrittore Rovani definì «un bel granatiere di Slesia». L'iniziale opposizione a Wagner generò fraintendimenti e svarioni, cui non fece eccezione nemmeno Verdi.
Ci soccorre una lettera del 1863, ristampata nel recente Giuseppe Verdi - Lettere, autobiografia epistolare preziosamente scelta e annotata da Eduardo Rescigno per i prestigiosi Millenni Einaudi. Verdi, saputo che due giovani musicisti, Franco Faccio e Arrigo Boito, erano caldi ammiratori del «Vagner» (sic), scrisse alla loro protettrice e sua amica Clarina Maffei: «Nulla di male, purché l'ammirazione non degeneri in imitazione. Vagner è fatto ed è inutile rifarlo. Vagner non è una bestia feroce come vogliono i puristi, né un Profeta come vogliono i suoi apostoli. È un uomo di molto ingegno che si piace delle vie scabrose, perché non sa trovare le facili e le più diritte». Il pregiudizio sulla scabrosità non cessò nemmeno dopo l'assorbimento da parte di Ricordi di Casa Lucca, ma un forte entusiasmo accompagnò la scoperta delle opere, cui diedero decisivo impulso i maggiori direttori italiani del tempo: Angelo Mariani e Giuseppe Martucci, Faccio e Luigi Mancinelli, Vittorio M. Vanzo e Arturo Toscanini - quest'ultimo capace di stupire in Wagner perfino i padroni di casa di Bayreuth e nel contempo di far trionfare a Salisburgo Verdi, dedicandogli la stessa cura e determinazione riservata a Bayreuth al Dio Wagner.
La notizia dell'improvvisa morte di Wagner a Venezia lasciò atterrito il grande coetaneo-vegliardo di Busseto che così ci lascia detto: «Non discutiamo. È una grande individualità che sparisce! Un nome che lascia un'impronta potentissima nella Storia dell'Arte!!!».
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