La lunga storia della guerra raccontata senza moralismi

Margaret MacMillan riflette sull'inevitabilità dei conflitti e sul perché la lotta affascina gli uomini

La lunga storia della guerra raccontata senza moralismi

Per millenni l'umanità ha considerato la guerra come un orizzonte ineliminabile della vita associata dell'uomo: dopo di che la si poteva pensare come un male necessario, come uno strumento, come una possibilità ma anche come un'epopea da cantare con entusiasmo.

Solo dopo la prima e soprattutto dopo la Seconda guerra mondiale la cultura occidentale ha iniziato a rifiutare aprioristicamente l'idea stessa della guerra, nello stesso momento in cui ha espulso la morte dall'orizzonte della propria quotidianità. La guerra è stata considerata un male assoluto, una sciagura, qualcosa da evitare a tutti costi, da espellere dal novero delle possibilità, un autentico tabù. Come la morte, però anche la guerra è ineliminabile dalla vita delle comunità umane, nonostante le illusioni illuministiche sulla pace perpetua. E infatti anche dopo il 1945 di guerre se ne sono combattute, eccome, e pure molto sanguinose, certo non nell'Europa occidentale che, protetta e difesa dagli Usa, si è potuta illudere il tempo della guerra fosse finito - salvo ovviamente non leggere i giornali e non vedere Corea, Vietnam e via dicendo.

Il risveglio fu brutale all'inizio degli anni Novanta, con le guerre della ex Jugoslavia ma, nonostante queste e altre lezioni, dell'Afghanistan all'Iraq alla Siria, permane ancora oggi l'idea ebete della guerra male assoluto e soprattuto la pericolosa illusione di poterla estirpare dalla natura dell'uomo. Ma, come scriveva Sant'Agostino, «il fine di tutte le guerre è la pace», cioè a dire che a volte la guerra è necessaria proprio per ristabilire un ordine non restaurabile in altro modo: e che l'assenza di questo ordine, l'opposto della pace, produce molto più morti e distruzioni della guerra.

È totalmente libera da questa ideologia irenica Margaret MacMillan una delle principali storiche della prima guerra mondiale e dei trattati di pace sciagurati all'origine della Seconda. Da specialista di quel periodo sa che non basta dichiararsi pacifisti, come faceva il presidente Wilson, per costruire la pace. E come la strada verso l'inferno è lastricata da buone intenzioni, quella verso la guerra lo è dalle azioni di politici convinti anche in buona fede di lavorare per la pace, come appunto il presidente americano, uno dei responsabili dello scoppio della Seconda guerra mondale per le decisioni scellerate imposte al mondo dopo la fine della prima. In questo nuovo libro (War: how conflict shaped us, Profile Books, 27 euro) Mac Millan considera la guerra appunto come un orizzonte inestirpabile dalle comunità umane, un approccio realistico che la rende unica in un panorama storiografico in cui prevalgono da un lato le posizioni ireniche sulla guerra male assoluto (e quindi ne deriva una storiografia moralistica) dall'altro, e sono persino peggio, quelle legalistico-formali, cioè l'idea che si possa evitare la guerra con le regole delle organizzazioni internazionali.

Nell'ottavo capitolo, che prende il titolo di «controllare l'incontrollabile», una citazione a esergo di Pancho Villa spiega l'impostazione del volume: «Fa ridere cercare di imporre regole alla guerra. Non è un gioco. Che differenza c'è tra tra una guerra civilizzata e tutti gli altri tipi di guerra?». E infatti la narrazione realistica e disincantata di MacMillan ci mostra come i tentativi di convezione internazionali siano serviti a poco per frenare l'impossibile carattere distruttore della guerra: di risorse, di uomini, ma anche di civili, da sempre vittime delle guerre, contrariamente a chi crede siano stati investiti solo nella Seconda. Stuprare le donne, ad esempio, una pratica da sempre condotta da tutti gli esercizi invasori, per Mac Millan, diversamente dall'approccio moralistico, non può esser considerato solo come una barbarie: lo è, evidentemente, ma è anche parte di una strategia di occupazione del territorio e di intimidazione del nemico.

Cosicché il discrimine tra guerra e terrorismo, sul piano legalistico formale ben evidente, su quello storico sfuma. Altre parti assai avvincenti del libro sono quelle dedicate alla bellezza della guerra. Mac Millan, canadese nata tra l'altro verso la fine del Secondo conflitto mondiale, ovviamente non giudica per nulla esteticamente attraente la guerra ma questo non la esime da considerare che millenni di storia hanno fatto il contrario. Nelle guerra esiste un elemento dei fascino e di attrazione, non solo erotico come pure è, ma anche intellettuale ed emozionale: i passaggi citati dall'autrice ci mostrano in particolare come molto spesso i pacifisti, trovatasi in guerra, siano stati costretti ad ammettere in fondo di amarla.

Alla fine della lettura del volume si respira: circondati da una storiografia moralistica volta al piagnisteo, da un lato e da un'altra che, con il ditino alzato, ci vuole spiegare come l'umanità avrebbe dovuto essere, la storiografia realistica ci racconta come l'umanità è stata effettivamente. E quindi, come sempre sarà, almeno finché esisterà.

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